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orriere-ALLA RICERCA MENO SOLDI CHE AL MAIS

Noi, l'Ue e l'innovazione ALLA RICERCA MENO SOLDI CHE AL MAIS di GASPARE BARBIELLINI AMIDEI Il declino economico italiano è come la siccità: negli acquedotti ci sono troppi buchi...

29/07/2003
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Corriere della sera

Noi, l'Ue e l'innovazione

ALLA RICERCA MENO SOLDI CHE AL MAIS

di GASPARE BARBIELLINI AMIDEI

Il declino economico italiano è come la siccità: negli acquedotti ci sono troppi buchi e con la meteorologia rovente l'acqua scarseggia. Dal serbatoio delle risorse umane esce troppo capitale inutilizzato e lo sviluppo si arresta. C'è una ragione di povertà pedagogica e c'è una ragione di gracilità della ricerca nel fatto che la crescita del nostro Prodotto interno lordo sia stata negli ultimi anni la metà di quella degli altri Paesi economicamente evoluti. Secondo la graduatoria del World Economic Forum, poi, siamo al 45esimo posto nella competitività. Lo scatto in basso dal 39esimo al 45esimo è di questi giorni e i giornali non lo hanno ancora registrato. Qualcosa non funziona nella macchina che prepara e poi amministra il capitale umano se il 26% dei laureati non trova lavoro passati tre anni dalla fine degli studi e un altro 47 è impiegato in settori del tutto estranei alla materia dei corsi universitari frequentati. Del resto, fra i laureati che lavorano, quasi il 33% affronta una fatica per la quale la laurea non è neppure necessaria. Chi può studiare non riesce a lavorare secondo la logica degli studi compiuti, ma chi lavora non trova strutture per alternare il tempo della produzione a quello della propria riqualificazione e del proprio aggiornamento. Infatti, secondo un'indagine Censis di meno di tre mesi fa, il 49% dei collaboratori coordinati e continuativi ha appena frequentato corsi di formazione professionale o di specializzazione, ma più della metà di essi ha dovuto pagarseli direttamente di tasca propria.
È come se la macchina pubblica dell'istruzione costruisse automobili per percorrere la vita produttiva ma non prevedesse distributori per il carburante. E senza il carburante della formazione permanente il capitale umano uscito dalla scuola si deprezza nel giro di anni e forse di mesi. E questa riqualificazione non si può realizzare senza la leva di un intero nuovo sistema di formazione professionale. Deve andare a regime ciò che è previsto dalla Riforma. Se poi si dice che non ci sono i soldi per questo c i si arrende al declino che l'immobilismo di una scuola conservatrice dispendiosa finisce per favorire. Serve quindi invertire la logica improduttiva e inflazionistica degli ultimi trent'anni di politica scolastica. Credo faccia bene a sottolinearlo in questi giorni, con dichiarazioni di intenti dentro la presidenza semestrale europea e con interviste giornalistiche, il ministro Moratti, cui è affidato il compito di rilanciare tre attività finanziariamente oggi disamate dallo Stato: scuola, università e ricerca. C'è uno squilibrio europeo e c'è un doppio squilibrio italiano. Mi faceva notare giorni fa un grande economista spagnolo, che è stato ministro per la Ricerca nel suo Paese, come nell'Unione Europea i trasferim enti a sostegno del grano e del mais superino di quasi cinque volte quelli a favore della ricerca. Ma nessuno si propone davvero di sottrarre soldi all'agricoltura europea. Il problema per lo sviluppo e per la ricerca si pone in termini di investimenti in capitale umano, non di assegni per la sua sopravvivenza. Del resto non c'è alcun progetto di esportare grano e mais negli Stati Uniti o in Sudamerica con l'aiuto dei fondi comunitari, mentre è invece nell'obbligo della logica mondiale esportare ovunque il frutto tecnologico intellettuale della competitività che va recuperata per il capitale umano. Ci sono in Italia un milione e 200 mila lavoratori che cercano un'altra occupazione perché insoddisfatti della loro condizione attuale. Essi si aggiungono ai mal laureati che non trovano lavoro e ai mal impiegati che l avorano su posti che non hanno correlazione con i loro studi. Ma alle spalle di tutto ciò c'è una ripartizione sproporzionata tra le voci di bilancio. L'Italia investe sull'istruzione e la formazione soltanto il 4,5% del proprio prodotto interno lordo e soltanto l'1 nella ricerca. È comunque troppo poco per cambiare. Da dove altro può venire infatti il cambiamento se non da un diverso dinamismo del capitale umano? Si possono anche in teoria rialzare barriere doganali cambiando ad esse il nome, ma una cadut a di intelligenza creativa e di competenze non può essere attutita da alcun marchingegno anticompetitivo. L'immaterialità della ricchezza umana, costruita con l'istruzione e con la ricerca, è per sua natura transfrontaliera. Una politica non avara e mirata delle competenze è implicita nelle ambizioni della Riforma della scuola e della Ricerca. Non si offrono alternative nei modelli dello sviluppo. L'ignoranza e la scarsità di preparazione, così come l'arretratezza scientifica e tecnologica, non distribuisc ono dividendi né per l'oggi né per il domani. G. Barbiellini Amidei

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