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«Noi professori da giudici a giudicati»

Chi ha concepito questo pastrocchio che serve solo a infittire le tenebre e favorire l’arbitrarietà?

02/10/2019
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Corriere della sera

Alessandro Piperno

on amo giudicare (né essere giudicato). Ho seri problemi con pagelle, recensioni, verbali: che sia io a compilarli o che siano a mio danno o vantaggio, la sola utopia che concepisco è un mondo in cui nessuno giudica. Quando devo valutare qualcuno mi viene subito in mente la frase che Tolstoj mette in bocca a un suo personaggio: «Dove si giudica non c’è giustizia».

Non invidio i magistrati, i vigili urbani, gli arbitri di calcio, per non dire dei critici gastronomici. Comminare pene? Multare? Ammonire? Conferire stelle? Che strazio! Forse faccio lo scrittore perché la narrativa è il solo luogo in cui il giudizio è sospeso quasi per statuto (parlo della narrativa migliore, naturalmente).

***

Poi però c’è l’altro mestiere, quello borghese: l’accademico. Lì non si scappa. L’istruzione — a meno di non intenderla in modo utopistico, come faceva Montaigne — si basa sul giudizio, nei casi peggiori su reprimende, castighi, mortificazioni. All’università poi, come recita l’adagio eduardiano, gli esami non finiscono mai. Ebbene, se da studente detestavo essere esaminato, ora l’incubo è esaminare. Non mi fido del mio discernimento più che della buonafede dello studente medio (lo sono stato anch’io dopotutto, e non tra i più virtuosi). Con gli anni ci ho messo una pezza: mi sforzo di essere equanime ma non troppo indulgente; non pretendo dagli allievi la mia stessa devozione per la letteratura e tengo al guinzaglio simpatie o antipatie inconsulte. Se proprio devo, durante la sessione, sfotto me stesso, Flaubert e l’esaminato, ma così per allentare la tensione. Insomma faccio del mio meglio per non essere iniquo e ansiogeno. Non esibisco la crudeltà dei miei maestri ma neanche il lassismo peloso di certi demagoghi vetero-sessantottini.

***

Ciò detto, tutto mi sarei aspettato tranne che, in una sorta di beffardo ribaltamento della sorte, alla soglia dei cinquant’anni mi sarei ritrovato invischiato in un tipo di istituzione universitaria — nuova di zecca e iper-democratica — in cui a essere giudicati sono i docenti. Spero che nessuno prenda questo pezzo per una squallida rivendicazione corporativa. Figuriamoci. Il mio intento è segnalare, persino divertito, alcuni bizzarri dati sensibili, chiamiamoli così.

Tralascio i termini burocratici della faccenda, tanto noiosi quanto difficili da comunicare. Vi basti sapere che ogni anno gli atenei sottopongono gli studenti a una serie di questionari per valutare il gradimento del servizio erogato (testuale) dai professori. Si dà il caso che quest’anno, per ragioni di turnazione, mi sia ritrovato nella commissione chiamata a visionare le risposte dei nostri allievi, il cosiddetto «monitoraggio».

1) Cosa pensano gli studenti di noi?

2) Cosa possiamo fare per facilitare loro il compito?

3) Quali mancanze è necessario correggere?

Vorrei dirvi che ad avermi preoccupato sono state le risposte. Niente affatto. Assurde erano soprattutto le domande: il tono delle domande.

Scorrendole mi sentivo come il titolare di un ristorante che consulta stoicamente i giudizi lasciati su un sito specializzato da un avventore esigente e malmostoso. Intendiamoci, da anni i docenti trovano sul proprio profilo accademico i commenti degli studenti sui loro corsi. Non mi piace ma mi adeguo. Ecco però un bel salto di qualità. Si fa una media matematica delle risposte a interrogativi così concepiti: «Il carico di studio richiesto da questo insegnamento è proporzionato rispetto ai crediti assegnati?». Che diavolo di domanda è? Che senso ha? Sono anni che provo a capire cosa sia adeguato e cosa non lo sia allo studio di una disciplina cui ho consacrato le mie forze migliori. E ora tocca a uno studente — anche al più pelandrone e disinteressato, «la confraternita del diciotto, spina dorsale della nazione» — dire la sua su una questione su cui io stesso nutro dubbi ancestrali. Che mondo è questo? Chi ha ideato una simile mostruosità demagogica?

***

E visto che non c’è limite alla grande sbornia giudicante che infesta questi tempi di giacobinismo massificato, se ne sono inventati un’altra. Per fare carriera un professore deve pubblicare articoli su riviste scientifiche di classe A (sì, proprio come la Mercedes). Tralasciando il fatto che applicare criteri scientifici alle discipline umanistiche è una nefandezza atta a favorire conformismo, banalità e ogni sorta di consorteria accademica, e en passant a mortificare originalità e slanci creativi, soffermiamoci sulla bizantina trafila che porta alla pubblicazione.

Tu sputi il sangue su un articolo per mesi. Poi lo consegni alla redazione; la quale, senza alcun criterio, lo invia a un paio di tuoi colleghi anonimi che si prendono il tempo per giudicarlo (non vedono l’ora di farti la pelle, o quanto meno la lezione). Tocca a loro stabilire se il tuo lavoro è degno di essere pubblicato. Ufficialmente non conoscono il nome dell’imputato affidato alle loro cure, ma vi assicuro: non è così difficile scoprirlo. In teoria potrebbero essere accademici con cui non condividi niente o con cui hai più volte polemizzato. Gli stai servendo su un piatto d’argento l’agognata vendetta. Dopo qualche settimana arriva il responso, il cosiddetto referee . Non è detto che i due censori siano d’accordo tra loro. Uno potrebbe ritenere che hai scritto la cosa più bella mai concepita sull’argomento, l’altro che ti sei reso ridicolo.

A chi dare ragione? Uno dei due può accusarti di non aver citato un certo studio (per lui indispensabile, per te trascurabile). Perché deve averla vinta lui? Del resto, l’anonimato del giudice sembra un invito criminogeno all’esercizio del proprio piccolo potere o, nei casi peggiori, alla vendetta o alla delazione. A rendere tutto ancor più spiacevole è l’impossibilità di replica. Non puoi interloquire con i censori invisibili. Poniamo che tu non sia d’accordo con loro e voglia confrontarti? Non puoi farlo. Perché il loro giudizio dovrebbe valere più del tuo? Ti ritrovi l’articolo fatto a pezzi, pieno di commenti superciliosi o persino ingiuriosi, zeppo di correzioni neanche fosse una tesi di laurea; e devi starci, dando per scontate le argomentazioni, la competenza e soprattutto la buonafede dei tuoi colleghi. Chi ha concepito questo pastrocchio che serve solo a infittire le tenebre e favorire l’arbitrarietà?

È proprio vero allora: dove si giudica non c’è giustizia.


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