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Nell’economia della conoscenza La laurea è ancora importante

Rifiutare l’importanza di un’istruzione d’eccellenza è una risposta sbagliata al giusto desiderio di ridurre la diseguaglianza.

11/12/2020
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Corriere della sera

di Roger Abravanel

La Lettura del Corriere di questa settimana riprende in maniera interessante il dibattito sulla meritocrazia («Inganni e speranze») ospitando due antimeritocratici di rilievo internazionale: Michael Sandel («La tirannia della meritocrazia») e David Goodhart («Head, hand, heart»). I due convergono su una critica che è riassunta nei titoli e sottotitoli delle interviste: «lo studio non è risolutivo», «che errore puntare tutto sui cervelli» e «l’espansione dell’educazione superiore (universitaria) è al picco». Si aggiungono alla lunga lista degli accademici americani che criticano la meritocrazia, nata a Harvard 100 anni fa quando grazie al Sat si è rivoluzionato l’accesso alle università della Ivy League, che da allora hanno laureato non più solo i «figli di» ma i migliori studenti scelti in base al loro potenziale accademico e non alla classe sociale e facendo sorgere una nuova élite in sostituzione di quella basata sulla ereditarietà.

Sandel e Goodhart criticano questa nuova élite che chiamano «cognitiva». Come molti altri ritengono che essa guadagni troppo perché la meritocrazia dà una giustificazione morale alle disuguaglianze rendendole accettabili. Sandel (come la sua collega di Harvard Lani Guinier in «La tirannia della meritocrazia») sostiene che l’ideale di successo posto al centro del principio meritocratico è socialmente corrosivo perché fondato sull’individualismo e la competizione e sul disprezzo per chi non ha studiato e non ha avuto successo. In quanto docente di filosofia morale e politica ne trae implicazioni politiche, attribuendo proprio alla frustrazione dei due terzi degli americani per non essere socialmente rispettati, la responsabilità della vittoria di Trump (il suo elettore target è un maschio bianco non laureato).

Dove entrambi si distinguono chiaramente dagli altri critici della meritocrazia è sulla condanna alla importanza data all’istruzione universitaria. Lo fanno anche sottolineando come il Covid abbia fatto riscoprire quanto sono essenziali i lavori nelle consegne, nella assistenza a domicilio. Goodhart usa il titolo del suo saggio per rivalutare i lavori manuali (hand) e la solidarietà (heart) a scapito di quelli cognitivi (head).

Il fatto che la meritocrazia abbia creato una nuova élite della conoscenza è condivisibile e dimostrato dalle classifiche dei nuovi miliardari che vedono in testa imprenditori dell’high tech e professionisti di una finanza sempre più sofisticata. Rifiutare però l’importanza di un’istruzione d’eccellenza è una risposta sbagliata al giusto desiderio di ridurre la diseguaglianza. Quella di identificare l’utilità dello studio per la persona (migliora il suo futuro) e per la società (contribuisce al capitale umano che fa crescere l’economia per tutti) con il principio morale sbagliato che chi studia è «persona migliore». La diseguaglianza non si riduce invitando a studiare meno e gratificando i poveri e sottopagati con l’elogio dell’importanza del loro lavoro, dichiarando per di più guerra alla selezione competitiva. Così si otterrà solo il risultato di scoraggiare dallo studio chi ha più difficoltà, non certo i figli dei miliardari ammessi ad Harvard (anche) grazie alle generose donazioni di papà. Servono invece più aggressive politiche redistributive e cercando più pari opportunità di accesso alla migliore istruzione. È questa la vera e giusta critica alla meritocrazia che viene fatta a Yale («La trappola della meritocrazia» di Daniel Markovits) e ad Harvard (Lani Guinier). Quella che sostiene che è nata una generazione di nuovi aristocratici che passano ai figli privilegi nell’accesso alle migliori università di denaro e aziende. Questi critici non rifiutano però l’importanza dell’istruzione superiore. Markovits suggerisce addirittura di raddoppiare gli studenti di Harvard (da 40 mila a 80 mila). Cercano solo di rendere l’accesso più «giusto».

Sandel e Goodhart risolvono il problema in modo diverso: meno élite cognitive e meno selezione competitiva (Sandel propone una lotteria per decidere chi deve essere ammesso a Harvard) .

Quanto al Covid, mentre ci ha fatto versare fiumi di inchiostro a glorificare i lavori «essenziali» come infermiere e fattorini, ha drammaticamente peggiorato le loro condizioni di lavoro e di rischio, senza affatto migliorare le loro prospettive economiche. Anzi ha creato voragini di disoccupazione e povertà proprio nello stesso gruppo sociale con basso livello di istruzione. E l’insegnamento in remoto penalizza proprio le classi meno abbienti.

Aspirazioni

Commessi e magazzinieri

più che la rivalutazione

del loro ruolo vorrebbero

essere pagati meglio

È facile per un accademico e un opinionista spiegare che il Covid rivaluta questi mestieri umili. Ma commessi, badanti, magazzinieri, più che essere rivalutati vorrebbero essere pagati meglio, e forse vorrebbero che i loro figli potessero fare qualche lavoro meno pesante e meglio retribuito.

Incoraggiare i giovani americani e inglesi a non cercare la migliore laurea possibile è un messaggio particolarmente pericoloso e sbagliato durante l’economia della conoscenza, peraltro proprio mentre i Paesi asiatici fanno esattamente l’opposto riscoprendo le antiche radici confuciane della selezione in base allo studio (in Corea il 70% dei giovani è laureato).

Il messaggio dei due autori è poi particolarmente pericoloso in Italia, dove la meritocrazia non è mai nata e i giovani da un pezzo hanno smesso di credere che lo studio e la laurea servano a migliorarli. Infatti siamo il fanalino di coda tra i Paesi occidentali per numero di laureati: si laureano i figli dei ricchi che sanno che trovano lavoro nell’azienda di famiglia. È pericoloso anche per tutta la società e per un’economia che rispetto all’Europa ha perso in trent’anni 32 punti di Pil, quasi 500 miliardi, pari al Pil del Portogallo più quello della Grecia, perché è mancato il necessario capitale umano selezionato e ben formato. Ciò di cui abbiamo bisogno è un nuovo capitalismo che sostituisca la vecchia classe dirigente del privilegio ereditario con una nuova élite, più simile all’aristocrazia cognitiva tanto criticata da Sandel e Goodhart. Un’aristocrazia 2.0.

Se il nostro è il modello socio-economico educativo auspicato da Sandel e Goodhart, forse dovremmo proporli per la cittadinanza italiana. Tra l’altro Goodhart auspica il ritorno a leader politici non laureati come Attlee. Da noi ne troverebbe a bizzeffe.


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