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Manifesto-Domande di un ateo -di Pietro Ingrao

Domande di un ateo PIETRO INGRAO Questo articolo non è un commento politico alla visita di Papa Wojtyla al Parlamento italiano nel palazzo di Montecitorio. L'Evento c'è stato, ed è buono. Il San...

15/11/2002
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il manifesto

Domande di un ateo
PIETRO INGRAO
Questo articolo non è un commento politico alla visita di Papa Wojtyla al Parlamento italiano nel palazzo di Montecitorio. L'Evento c'è stato, ed è buono. Il Santo Padre è stato garbato, gentile verso il popolo italiano. E il suo discorso è stato denso di buoni consigli; e si è preso un mare di applausi, in quell'aula fastosa con i suoi dipinti rutilanti.

Ieri i parlamentari traboccavano dall'aula piena come un uovo, e quasi facevano a gara per acciuffare il passo del discorso del pontefice che sembrava più congruo ai loro programmi: come affratellati nella sfida alla buona accoglienza verso quella Autorità sacra.

Io invece, via via che avanzava il discorso del Pontefice sentivo crescere in me un certo malessere. Faccio un esempio per tutti. Nel discorso di quel Pontefice romano c'era, senza nessuna ambiguità, e anche con passione, l'appello alla collaborazione fra i popoli, la condanna severa del terrorismo e una amara doglianza per l'inasprirsi dei "cronici conflitti - è detto così - a cominciare da quello che insanguina la terra santa". E tuttavia mi sembrava che in quelle parole ci fosse come una strana omissione: la parola "guerra" non era usata mai. O al massimo - ma non mi sembra - quella parola può essere apparsa di sguincio.

E soprattutto, se ho ascoltato bene, non c'era nemmeno, in quelle parole del Papa un piccolissimo riferimento, o una allusione la più esile al concetto di "guerra preventiva" elaborato e sostenuto dalla più alta autorità degli Stati uniti d'America, la prima potenza del mondo che tanti definiscono ormai come impero: l'unico impero forse al mondo.

E se non si discuteva di questi livelli a cui si sta assestando la politica e l'urto nel mondo su che cosa si era in pena prima di tutto? E che cosa - ecco la domanda - urgeva più di ogni altro se non il rischio grave di una guerra preventiva e dei suoi riflessi nella politica mondiale? E se il dibattito prima di tutto non ragionava di questo, che verità c'era in quell'incontro?

Poi, volgendo alla fine del suo discorso, il Pontefice ha affrontato la questione sociale, affermando (cito le sue parole) che "è altrettanto inevitabile riconoscere la tuttora grave crisi dell'occupazione giovanile, e le molte povertà e miserie ed emarginazioni che affliggono numerose persone e famiglie italiane o immigrate in questo paese".

E qui naturalmente gli applausi si sono sprecati, unanimi, da tutti i banchi. Quasi un'ovazione. Io invece mi dicevo: vedrai che qui farà un nome: la Fiat per esempio, o Termini Imerese, visto che da quei nodi dipende non solo la sorte dei giovani ma gran parte dell'orientamento economico e sociale del paese; e senza andare a fondo in questi discorsi tipo Fiat mi sembra difficile portare innanzi un qualsiasi sforzo sull'avvenire dei giovani. Come era possibile allora quella distrazione nelle parole del Pontefice? Infine Papa Wojtyla, come era previsto, ha chiesto un impegno sulla situazione delle carceri, nelle quali i detenuti vivono spesso in condizioni di penoso sovraffollamento "mentre un segno di clemenza verso di loro mediante una riduzione della pena costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità, che non mancherebbe di stimolarne l'impegno di personale ricucitura in vista di un positivo reinserimento nella società". E qui - insieme con l'aula - stavo per applaudire anch'io.

Non ho applaudito non solo per il vizio estremistico di chiedere sempre di più. Non mi è piaciuta una parola usata da quel Pontefice. Ha fatto ricorso a una parola che non amo; ha detto: clemenza, e questo è un termine che rimanda a tutta una lettura del peccato e della colpa che a me sembra ipocrita e deviante. Mi direte: il Papa guarda al sodo e usa il vocabolario suo proprio, per salvare vite e anime.

Va bene ma in quell'aula di Montecitorio c'è la giusta abitudine (quasi il vizio) di pesare le parole. E il Papa lo sa.

Anzi, qui sono io che mi rivolgo ai presidenti Casini e Pera - ed anche altri - per domandare ancora una volta: quando farete in quell'aula di Montecitorio, dove oggi ha parlato il pontefice romano, un confronto sull'articolo 11 della Costituzione? Quell'articolo che parla appunto della pace e della guerra.


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