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Manifesto: Campus aperti nella fabbrica della conoscenza

Chi sostiene che le condizioni di lavoro nelle università italiane e americane sono completamente differenti ha al contempo ragione e torto

02/06/2006
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il manifesto

Campus aperti nella fabbrica della conoscenza
La tranquilla vita di alcuni atenei statunitensi viene scossa da picchetti e scioperi. A mobilitarsi sono i «gratuates», gli studenti che svolgono attività di docenza senza che venga riconosciuto loro nessun diritto
I media scoprono il termine precarietà, mentre conquistano terreno temi come la proprietà intellettuale. E la critica alla razionalità economica supera gli angusti confini della vita accademica
Gigi Roggiero
Chi sostiene che le condizioni del lavoro nelle università italiane e americane sono completamente differenti ha al contempo ragione e torto. Ragione, in quanto la famigerata miscela italica di feudalesimo e postfordismo, di potere baronale e riforme aziendalistiche, è ben diversa dalla corporation formativa statunitense. Torto perché c'è un sostanziale elemento comune: la precarietà. Non a caso, anche grazie all'eco transnazionale delle mobilitazioni francesi, il termine precariousness si è diffuso nel lessico dei media, perdendo le virgolette che all'inizio lo accompagnavano. Ma anche su questa sponda dell'Atlantico il termine non fotografa algidamente solo le condizioni del lavoro, ma comincia a farsi carne e sangue. E, sebbene non si possa dire che il vento della primavera parigina soffi forte, nelle università statunitensi conflitti e scioperi stanno tuttavia inscrespando la superficie liscia della knowledge factory a stelle e strisce.
I principali protagonisti delle lotte di questi ultimi mesi sono gli studenti graduate, che studiano e insegnano nei percorsi post-lauream. Sono collocati in un punto di snodo del ramificato sistema formativo americano, attraverso cui si può nitidamente leggere una tendenza in atto in Europa da alcuni anni: il passaggio da meccanismi selettivi basati sull'esclusione a processi di inclusione differenziale. Già negli anni '90 oltre il 60% dei diplomati (oltre il doppio di Inghilterra, Germania o Francia) proseguiva i propri studi: tuttavia, se metà va nelle università con corsi di quattro anni (chi ha i voti più alti ai primi due livelli delle research university, gli altri al terzo delle teaching university), l'altra metà si incanala nei community college, che offrono in due anni qualifiche di basso profilo. Nella forte differenziazione dei percorsi, qualità e valore dei titoli variano notevolmente in base al prestigio delle singole istituzioni. In questo quadro, la diversità tra università private e pubbliche si limita al raddoppiamento del già esorbitante costo delle tasse. Per il resto, in entrambe i criteri guida sono la produttività e il profitto.
La borsa valori dei graduate
I programmi graduate sono solitamente coperti da una borsa della durata di cinque anni, che prevede ricerca, studio e obblighi di insegnamento. Pur chiamati studenti, i graduate sostengono buona parte dell'attività didattica nei corsi di laurea: tuttavia, le amministrazioni dell'università rifiutano di riconoscerli come lavoratori, utilizzando l'ambiguo ombrello della libertà accademica.
Il paradosso - ancor più mistificante in un sistema in cui i saperi sono la principale risorsa produttiva - è ben descritto da Paola, 30 anni, in fuga dall'Italia e ora al terzo anno di dottorato (Ph.D.) alla New York University: «Secondo l'amministrazione, ossia il datore di lavoro, noi siamo degli intellettuali in formazione e se vogliamo un sindacato rinunciamo alla nostra libertà accademica e intellettuale. Ma noi graduate siamo lavoratori, è impossibile separare l'attività intellettuale dal lavoro di insegnamento».
Va segnalato il fatto che il riconoscimento della union, cioè delle organizzazioni sindacali, è una delle principali battaglie che animano le mobilitazioni degli studenti graduate e degli adjuncts, docenti assunti con contratti a breve termine. Già nel 2001 più del 40% della forza-lavoro accademica era part-time: infatti, come sottolinea Michael, leader del Gsoc ( Graduate Student Organizing Committee, la union degli studenti graduate alla New York Univerity), «c'è una generale tendenza ad avere meno tenure track (docenti di ruolo, n.d.r.) e più contingent teaching, graduate students e adjuncts».
Il rapporto tra i lavoratori e il sindacato è per certi versi capovolto rispetto al modello europeo. Lo racconta Kitty: «Alla fine degli anni '90 come studenti graduate della New York University abbiamo costituito un comitato organizzativo con alcune centinaia di aderenti. Era il momento di chiedere l'assistenza di un sindacato nazionale; ci siamo informati su alcune union e abbiamo scelto lo United Auto Workers. Loro erano contenti di avere il nostro comitato, e noi potevamo usufruire delle loro risorse, con la possibilità di un grado di organizzazione maggiore ma sempre autonomo». In altre parole: non è il sindacato che forma un proprio organo all'interno dell'università e cerca di rappresentare i lavoratori, ma sono questi che - dopo essersi organizzati autonomamente - scelgono sul libero e competitivo «mercato» sindacale chi offre maggiori vantaggi.
Rappresentanza a progetto
Funziona dunque una sorta di rappresentanza a progetto: spesso è l'autorappresentazione collettiva dei soggetti sociali che utilizza in modo flessibile le risorse delle organizzazioni sindacali. «Ho dato il mio appoggio al sindacato in quanto arma da usare per affermare i nostri diritti - racconta infatti Chad, studente di origine iraniana che sta finendo il Ph.D. alla Columbia University - perché non ho mai pensato che gli studenti graduate debbano necessariamente essere legati a un sindacato». Gli scioperi alla Columbia degli ultimi anni - così come le precedenti mobilitazioni a Yale - non sono stati sufficienti al riconoscimento della union: dopo le votazioni in merito, l'amministrazione universitaria si è infatti rifiutata di contare le schede. Stessa situazione alla New York Univeristy, che per prima negli Stati uniti ha riconosciuto il sindacato degli studenti graduate, ma che nel 2005 è tornata sui suoi passi: da qui è cominciata la mobilitazione, inaugurata lo scorso 21 agosto da una grande manifestazione conclusasi con un'azione di disobbedienza con 71 persone arrestate.
Può però risultare strano alle orecchie degli anti-americanisti dell'italico movimento operaio sentire che tra costoro figurano molti sindacalisti, a partire dal leader dell'Afl-Cio John Sweeney, non certo un radical. Azzardando un paragone, è come se alle mobilitazioni degli studenti e dei precari dell'università nello scorso autunno Epifani e i dirigenti della Cgil fossero stati disponibili a un simile livello di radicalità. Purtroppo, invece, davanti ai labili cancelli che dividono le università dalla metropoli non si vide nessuno. Invece, nella società del (tutto sommato impossibile) controllo, anche gli arresti - con dichiarati livelli di mediazione e garanzie - diventano una risorsa utilizzabile per dare visibilità al conflitto.
Il 9 novembre gli studenti graduate hanno cominciato uno sciopero la cui peculiarità è raccontata da Paola: «Noi siamo abituati a scioperi di pochi giorni, questo è invece uno strike a oltranza». Molti dei circa 800 studenti che hanno iniziato lo sciopero si sono politicizzati nella mobilitazione, come nel caso di Jill, dottoranda di Sociologia: «La maggioranza degli studenti non aveva mai fatto parte del sindacato». Se il riconoscimento della union è più difficile, la mobilitazione nelle università private è tuttavia più efficace, in quanto i lavoratori delle università statali sono sottoposti alla draconiana Taylor Law che dal 1967 impedisce gli scioperi nel settore pubblico.
La piramide del sapere
A Roma la mobilitazione dello scorso autunno cominciò dall'occupazione di Fisica, dove gli studenti percepiscono immediatamente il peso di una mobilità sociale discendente; negli Stati uniti invece i curriculum scientifici garantiscono impieghi con paghe medio-alte (in facoltà ben finanziate, oppure nelle imprese private). La piramide gerarchica delle discipline, cui corrispondono la diversificazione dei fondi e le profonde differenze salariali, spiega il fatto che siano gli studenti graduate delle humanities ad alimentare le mobilitazioni, benché non siano assenti persone di Chimica o Fisica. Tuttavia, come si diceva, c'è un elemento comune che sottende e ricombina le istanze di conflitto: «È la precarietà, una questione che va inquadrata in un contesto sociale più ampio», secondo il trentasettenne Paul, che dopo aver lavorato come ingegnere per 13 anni, ha deciso - voltando le spalle alla razionalità economica tanto amata amata dagli scienziati sociali - di fare un più attraente Ph.D. in storia. Dello stesso avviso sono Maida e Maggie, entrambe storiche e giovani dirigenti del Gsoc: «Quello che succede nelle università fa parte della più generale precarizzazione del lavoro. Per questo abbiamo partecipato alle manifestazioni dei migranti undocumented». Lungi dall'essere settoriali, i conflitti dell'università sembrano, almeno finora, essere in grado di parlare un lessico comune, come sottolinea Kitty: «C'è stata una grande dimostrazione di unità, anche i più scettici hanno compreso l'importanza di vincere questa lotta che riguarda il labor movement nel suo insieme: è una prova di forza in questa città, è una questione di potere per i lavoratori».
Ciò che colpisce nelle parole dei protagonisti delle mobilitazioni è la loro visione «classista» dei rapporti universitari: l'amministrazione della corporation è l'avversario, mentre i docenti devono decidere da che parte stare. Non c'è spazio per i vischiosi e ambigui rapporti che in Italia spesso contraddistinguono le relazioni tra i precari e il baronato progressista (si pensi al ruolo giocato dai rettori nelle lotte contro la legge Moratti).
I mercanti del copyright
Come risvolto della medaglia, negli Usa si fatica a uscire dalle rivendicazioni « bread-and-butter» (pane e burro), per usare la bella espressione di Tristan, ventottenne dottoranda in Storia. Se la discussione su saperi e modelli formativi viene confinata all'astratta speculazione filosofica, questioni politicamente centrali come brevetti, copyright e privatizzazione della conoscenza non vengono toccate, e i sindacati dei docenti spesso si limitano a negoziare sui diritti di proprietà intellettuale. Da ciò deriva un altro grosso problema, evidenziato dalla stessa Tristan: «L'occuparsi solo di tali questioni ha fatto emergere nello sciopero fratture tra i membri del sindacato sulle linee del colore e di classe. Non essendo state affrontate prima, ora molti studenti color hanno rinunciato a partecipare a questa lotta perchè non pensano che i loro problemi siano stati accolti, capiti e affrontati». Se l'alta partecipazione di donne ha duramente messo in discussione la cultura machista profondamente radicata nel sindacato, non altrettanto è avvenuto - al di là della selezione universitaria - per la tradizionale leadership bianca.
Va sottolineato che le amministrazioni delle università non rifiutano tanto l'idea del sindacato: questo è ben accetto laddove collabora alla governance accademica. In altri termini, la rappresentanza degli studenti e dei ricercatori precari cresce solo nella misura in cui essi sono clienti, stakeholders funzionali e controllabili che con il lavoro non riconosciuto e le tasse sostengono il budget di impresa. Ciò che l'amministrazione non accetta è un soggetto precario che si organizza per affermare i suoi diritti. D'altra parte, le lotte francesi contro la proposta governativa sul contratto di primo impiego così come lo sciopero della New York University fanno rimbalzare tra le due sponde dello spazio atlantico, sebbene ancora e solo in controluce, il problema delle nuove forme organizzative del precariato contemporaneo.
Una cosa invece pare certa: il sistema universitario americano, basato sul profitto, la competizione e la compravendita dei saperi, offre ai precari maggiori chance di mobilità e contrattazione (soldi e tenure track in cambio della produttività) e probabilmente più chiari confini per il conflitto. Insomma, tra il barone del sapere e il managment della conoscenza bisognerebbe iniziare a eliminarne uno, per avere davanti il nemico nella sua nuda forma. E per cominciare a chiamare le cose con il loro nome.


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