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Ma così diciamo ai ragazzi che la scuola conta poco

Siamo il solo Paese europeo dove l'emergenza Covid mette in discussione la priorità di salvaguardare la didattica in presenza.

23/10/2020
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La Stampa

Flavia Perina

Siamo il solo Paese europeo dove l'emergenza Covid mette in discussione la priorità di salvaguardare la didattica in presenza. L'unico dove un numero consistente di studenti già da giorni ha perso il diritto all'istruzione nella sua forma canonica, cioè quella praticabile anche da chi è povero, non ha un tablet, vive in zone senza connessione o in case sovraffollate. Circa ottocentomila bambini e ragazzi residenti in Campania sono in lockdown educativo da una settimana e presto a loro si aggiungerà una quota analoga di lombardi, piemontesi, laziali e liguri, confinati davanti a un computer dalle annunciate ordinanze che impongono l'alternanza 50/50 tra istruzione a distanza e lezioni in classe.

Il messaggio che arriverà – in larga parte è già arrivato – a questi studenti e alle loro famiglie è molto evidente: la scuola non è poi così importante. È di sicuro meno importante dei bar, dei ristoranti, delle fabbriche, dei centri commerciali, che restano aperti, con limitazioni risibili negli orari notturni. È meno importante della privacy, meno della libertà di manifestare, meno del diritto allo sciopero, tutte cose tutelate con accuratezza nella temperie dell'epidemia, anche nelle sue fasi più acute. La scuola conta meno, persino, degli assetti del trasporto municipale. Anzi, viene chiusa per quello, per evitare di sottoporre a stress il tran-tran organizzativo degli autobus e delle metropolitane.

Governo, Regioni e Comuni che in queste ore si contendono la potestà di riscrivere le regole della pubblica istruzione, strapazzandole tra Dad (didattica a distanza), doppi turni, rotazioni settimanali, dovrebbero provare a guardare se stessi con gli occhi dei ragazzi e valutare gli effetti della contro-

pedagogia che stanno diffondendo. È l'antico «la cultura non si mangia» riproposto in scala esponenziale, insieme a tutte le frasi di noncuranza per lo studio che abbiamo ascoltato (e censurato) in questi anni da quelli convinti che al Paese servano più idraulici che laureati, più apprendisti muratori che liceali.

Il primo Stato europeo a tornare in lockdown, tre giorni fa, è stato l'Irlanda. Ha chiuso tutto, interrotto ogni attività economica e commerciale. Tranne la scuola. Si va a scuola anche in Spagna e in Francia, dove la situazione dei contagi è peggiore della nostra, e ovviamente in Germania. Moltissimi alunni sono in quarantena ma l'istituzione apre le porte ogni mattina per accogliere gli altri, la maggioranza che sta bene, con tutte le precauzioni del caso. Non sono Paesi suicidi, ma nazioni e classi dirigenti che hanno interiorizzato il concetto-guida dello sforzo comune intrapreso per uscire dall'emergenza, ben espresso dal titolo del gigantesco piano di aiuti continentali che l'Italia attende come manna dal cielo: Next Generation, Prossima Generazione. Su quel nome servirebbe una riflessione collettiva anche da noi, prima che per distrazione, pavidità o semplice soggiacenza alla fatalità degli eventi, si realizzi lo scenario opposto: quello di una Lost Generation, una generazione perduta, non tanto per qualche mese di mancata frequenza scolastica quanto per l'idea che la scuola sia un optional, un accessorio sacrificabile senza danno. —


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