Liberazione: La Finanziaria, i conti dell'università e la delusione
non stiamo parlando di sviluppo della tanto sbandierata “economia della conoscenza” purtroppo. Stiamo parlando di pura sopravvivenza degli Atenei pubblici. Non di lamentele, ma di un grido di agonia.
Marco Mancini*
Lo sciopero dei lavoratori dell’Università e della Ricerca il 17 novembre è stato fino a oggi il momento più aspro del dibattito sulla Finanziaria. Non è un caso che il primo sciopero dei Sindacati contro la Finanziaria 2007 sia stato organizzato nel settore della formazione e della ricerca. Qui, infatti, si concentrano le delusioni più cocenti degli stessi elettori del centrosinistra. Inutile negarlo. Delusioni nei confronti di un disegno di legge che, se non sarà modificato nell’iter del maxiemendamento, rischia di far fare un colossale passo indietro al mondo della ricerca e della formazione superiore nel nostro Paese. E ciò - vale la pena ricordarlo - nonostante autorevolissimi interventi a favore: dal Presidente della Repubblica al Governatore Draghi, da due Premi Nobel alla Conferenza dei Rettori. Quest’ultima, nella Relazione tenuta dal suo Presidente Guido Trombetti il 9 novembre, aveva già segnalato lo stato di allarme delle Università. Bilanci impossibili da chiudere, disagio del personale docente e, soprattutto, angoscia dei tanti precari che lavorano negli Atenei e negli Enti.
Preoccupazioni largamente condivise da vasti settori della maggioranza, a cominciare dallo stesso Ministro Mussi che si sta battendo per tentare di correggere lo stato dei conti, a oggi assolutamente insoddisfacente. Prima una precisazione doverosa. Proprio a causa di una campagna martellante su cifre e dati, la confusione sembra regnare sovrana. Le imprecisioni abbondano, i numeri si accavallano, si sommano, accendono speranze, provocano disillusioni dolorose come è avvenuto per l’ormai famoso emendamento Montalcini che rispondeva, in realtà, a una semplice partita di giro. Di qui il bisogno di fare chiarezza sui numeri. Non su quelli della produttività del sistema universitario, che sono ben noti e che, da soli, giustificherebbero le richieste degli Atenei: dall’incremento degli immatricolati e dei laureati al notevole aumento di risorse non statali introitate dalle Università (+17,5% nei soli ultimi tre anni). Non di questi intendiamo parlare ma dei fondi strutturali delle Università. Quegli stessi fondi che a p. 242 del programma dell’Unione venivano considerati prioritari per la ricerca e per la formazione al centro dell’azione del Governo: «una “quota di garanzia” per i bilanci universitari e degli enti a copertura degli incrementi di spesa decisi a livello centrale; stabilità nel tempo dei finanziamenti “ordinari” per la copertura dei costi incomprimibili necessari a presidiare in modo stabile i settori e le attività fondative di ciascuna».
Nella sua audizione alla Commissione Bilancio la Crui ha focalizzato l’attenzione su tre punti: Ffo (fondo di finanziamento ordinario trasferito dallo Stato); edilizia; legge Bersani. Sul Ffo a oggi il Governo mette 144 milioni di euro (50 in più rispetto a quanto era iscritto nel ddl licenziato dal Consiglio dei ministri il 29 settembre). Più che un incremento irrisorio, è un incremento apparente. Nel periodo 2002-2005 (Governo Berlusconi) il Ffo era cresciuto di 794 milioni di euro; nel 2006, per la prima volta, era diminuito di circa l’1%. Ciò significa che le Università devono recuperare un gap di circa 60 milioni di euro tra il 2005 e il 2006. Risultato: si parte da un finanziamento aggiuntivo per il 2007 di appena 80 milioni di euro. Si dirà: meglio di niente. Purtroppo è meno di niente. Infatti il sistema cumula obbligazioni nella transizione al prossimo anno pari ad almeno 143 milioni così ripartite: 23 milioni di euro per restituzioni sul Ffo 2006; 75 milioni per ripristino delle cosiddette partite debitorie; 45 milioni per i 10/12 restanti sulla mobilità e sul cosiddetto “rientro dei cervelli” avviati nel 2006. Si tratta di obbligazioni maturate per legge e, come si vede, ben al di sopra di quanto mette a disposizione il Governo.
In queste condizioni niente sviluppo, niente stabilizzazioni di precari anche perché, aumentando le spese automatiche per gli stipendi e restando fermo il Ffo, le Università hanno superato inesorabilmente il limite del 90% fissato dalla legge per poter assumere. E’ illusorio che il piano straordinario per i ricercatori varato con 140 milioni nel triennio sia integrativo (così nel maxiemendamento votato alla Camera): queste risorse, stando così le cose, rischiano di essere semplicemente sostitutive di quelle che oggi gli Atenei non posseggono. E con 140 milioni di euro ci si fanno appena 2800 posti di ricercatore. Davvero pochi per le attese di decine di migliaia di precari. Ecco dunque il motivo dei 250 milioni di euro richiesti dalla Crui. Identico discorso per l’edilizia universitaria. I 50 milioni di euro del Governo servono a pagare sì e no la metà degli accordi di programma già in essere. Cioè non un euro per nuovi investimenti edilizi. Niente di niente. La C. R. U. I. chiede il semplice ripristino della quota 2005 (Governo Berlusconi) pari a 150 milioni di euro.
Infine la legge Bersani. Il tema più scottante, la gabella più odiosa e più ingiusta che pesa sulle Università. Non parliamo qui dei tagli cosiddetti “lineari” di cui all’art. 53 del ddl che il ministro Mussi è riuscito a eliminare. C’è stata confusione su questo argomento (non innocente). I tagli “lineari” sono altra cosa. I tagli previsti dall’art. 22 della Legge 248/06, la Legge Bersani appunto, sarebbero di non meno di 200 milioni di euro: un prelievo pari al 20% di quanto era iscritto al 1 gennaio del 2006 sulle spese intermedie degli Atenei. L’articolo - che copia letteralmente un dispositivo identico del precedente Governo (l’11ter della l. 248/05, magia dei numeri!) - taglia risorse destinate alle utenze (gas, luce, acqua) e al funzionamento delle infrastrutture (biblioteche, laboratori ecc.). Risorse prelevate dalle casse delle Università e versate al ministero dell’Economia. Attenzione! Non risorse statali che ritornano allo Stato, ma risorse provenienti per lo più dalle tasse studentesche e dai fondi di ricerca, acquisite in autonomia e da consegnare al Tesoro entro il 30 giugno del 2007. Il tutto trascurando in maniera patente l’autonomia delle Università, esattamente allo stesso modo in cui nella Finanziaria sono stati inaspriti i vincoli introdotti dal Governo Berlusconi sui capitoli per il tempo determinato, per i congressi, per la pubblicità e così via.
Chiedere che le Università siano escluse dalla Legge Bersani è un obbligo morale prima ancora che un fatto tecnico-contabile. Chiedere che le Università ne siano escluse al pari degli Istituti zooprofilattici o degli Enti per le aree protette non è irresponsabile né irragionevole. Nel maxiemendamento alla lista dei privilegiati fuori dalla Bersani si sono aggiunti gli Enti di ricerca e una pletora di istituti del settore agrario (comma 206). E gli Atenei? Che cosa si aspetta? Un passo obbligatorio, a questo punto, nella discussione in Senato. Chiedere che gli studenti, che pagano le tasse per dei servizi, non siano beffati vedendosi decurtati riscaldamenti, acqua, elettricità non è un’eresia. Non lo è o non dovrebbe esserlo soprattutto per un Governo di centro-sinistra. E, si badi, non stiamo parlando di sviluppo della tanto sbandierata “economia della conoscenza” purtroppo. Stiamo parlando di pura sopravvivenza degli Atenei pubblici. Non di lamentele, ma di un grido di agonia.
*Rettore dell’Università della Tuscia, Segretario generale della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane