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La Stampa: L'Università e la medicina che non cura

Se ci si prende cura di un’istituzione e la si vuole riformare è perché la si ritiene un bene fondamentale. Ma se la si cura con medicine che la stroncano, vien da pensare che la strategia sia tutt’altra.

13/08/2009
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La Stampa

Federico Vercellone

Che le cose in università andassero male si sapeva da tempo. Si è denunciato legittimamente l’andamento perverso dei concorsi. Si è poi giustamente affermato che il proliferare delle sedi universitarie periferiche aveva determinato un immane sperpero di risorse. Ora ci troviamo dinanzi a un progetto di legge-quadro proposta dal governo che intende affrontare questi mali. Si riformano i concorsi proponendo che si formi su base nazionale una lista di idonei, mentre in un secondo momento le singole facoltà potranno scegliere al loro interno. Si tratta di una proposta saggia che non proviene però in prima battuta da questo governo ma da Umberto Eco. Essa non fa che rendere esplicita l’idea che l’università sia un sistema che funziona per cooptazione, in conformità con l’autonomia finanziaria degli Atenei, che va reso trasparente nei suoi passaggi. A questo passo fa coerentemente seguito una valutazione della ricerca e della didattica che verranno premiate o colpite finanziariamente a seconda dei loro esiti.
Il passo successivo invece non funziona. Si intende infatti mettere insieme ricerca e didattica, dissolvere le Facoltà, che sono istituzioni destinate all’insegnamento, nei Dipartimenti che sono invece istituti volti alla didattica. Qui ci troviamo dinanzi a un errore gravissimo che eredita una sequenza di altri errori storici non solo legislativi ma di politica culturale. E’ proprio perché in questo paese non si è mai voluto, sotto ogni cielo politico, promuovere la ricerca in modo autonomo rispetto alla didattica che si è giunti alla catastrofe attuale. Infatti se invece di far proliferare sedi periferiche che dovevano sommare con costi enormi e immane dispersione di energie ricerca e didattica, si fossero sviluppati autonomi centri di ricerca, avremmo probabilmente avuto istituzioni molto più funzionali e meno costose. Costerebbe certamente meno incrementare e valorizzare le attività del Consiglio Nazionale delle Ricerche in città già culturalmente mediamente attrezzate che non creare una nuova università nel deserto culturale. L’Europa ha da sempre finanziato la ricerca pura - si pensi a istituzioni come il CNRS francese - mentre l’Italia ha sempre voluto unire l’utile (la didattica) al dilettevole (la ricerca) spendendo cifre enormi con risultati sicuramente inadeguati rispetto allo sforzo.
Detto questo va rilevato che non si può avviare una riforma seria senza alimentare l’istituzione che si vuol riformare. Con il taglio progressivo del Fondo di Finanziamento Ordinario delle Università nel 2010 nessun Ateneo sarà in grado di chiudere il bilancio in pareggio. In questo quadro il Ministero ha riavviato l’iter per l’espletamento di concorsi per circa 1800 nuovi posti da professore associato o ordinario. Si tenga presente che agli Atenei è consentito fare assunzioni solo a condizione che la pressione degli stipendi non superi il 90% del Fondo di Finanziamento Ordinario. Per quanto mi consta tutti gli Atenei italiani sono oltre l’85%. Questo significa che l’82% del 2009 diverrà il 100% del 2010. Ciò invalida di fatto e di diritto i concorsi in itinere. E’ una contraddizione che il Ministero sembra non voler vedere. Se ci si prende cura di un’istituzione e la si vuole riformare è perché la si ritiene un bene fondamentale. Ma se la si cura con medicine che la stroncano, vien da pensare che la strategia sia tutt’altra.


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