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LA NON RIFORMA DELLA MANAGER - Di Giovanni Manzini - "Il Popolo"

C'è sempre stato un vivace dibattito nel nostro paese e, nella cultura contemporanea sul valore del politico nelle responsabilità di governo: è preferibile un politico o un tecnico? Nell'attuale s...

09/04/2002
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C'è sempre stato un vivace dibattito nel nostro paese e, nella cultura contemporanea sul valore del politico nelle responsabilità di governo: è preferibile un politico o un tecnico?
Nell'attuale situazione ci si trova, per la verità, di fronte ad un terzo caso: il ministero dell'istruzione dell'università e della ricerca (MIUR) non è guidato da un politico e nemmeno da un tecnico, bensì da una rappresentante di quella nuova generazione di gestori di enti ed istituzioni provenienti dal settore imprenditoriale il cui nome mitico è 'manager'. Ci si deve attendere pertanto che l'azienda scuola cominci finalmente il suo viaggio nell'efficienza il cui approdo è inevitabilmente quello dell'efficacia, cioè il risultato qualitativo del sistema che né i politici né i tecnici potevano raggiungere. E' l'ultima spiaggia e l'ultimo approdo: se dovesse fallire il manager con chi lo dovremmo sostituire? E' una grande scommessa: può la cultura menageriale dare uno scossone salutare a quella enorme macchina che è il sistema dell'Istruzione e della formazione nel nostro paese che comprende scuola, università e formazione professionale?
Un manager si qualifica per la sua capacità strategica di trasformazione delle parti del sistema in vista di un obiettivo dichiarato e chiaro al quale finalizzare tutte le operazioni.
Questo obiettivo appare oggi confuso e preoccupante. Si assiste ad una continua dissociazione tra le dichiarazioni di principio e le scelte operative. L'unica risposta chiara fino ad oggi si è infatti concretizzata nel taglio di 35 mila posti e nella totale dequalificazione dell'esame di stato. Il tutto ben sorretto da una impostazione fortemente centralistica. Per non parlare dello stato di paralisi in cui è stata ridotta l'amministrazione centrale e periferica.
Il nostro paese è caratterizzato da tre grandi sistemi formativi: università, la scuola, la formazione professionale gestita dalle regioni.
Per l'università il primo atto che ha fatto il ministro è stato quello di confermare la riforma fatta dal governo precedente, indicando soltanto possibili aggiustamenti in itinere del sistema, per il momento non ancora dichiarati e quindi non visibili.
Ma la riforma universitaria non era stata considerata quasi nefasta per lo sviluppo della società italiana? Ma con quale proposta alternativa il ministro si è affacciato alla gestione del governo del sistema universitario? I primi esiti delle iscrizioni universitarie indicano una crescita generalizzata in tutti i settori culturali, il che lascia intendere che la riforma in atto è stata accettata dalla nuova generazione giovanile, dopo anni di flessione del numero della matricole. Tutte le università italiane hanno adottato il nuovo modello; non è più possibile modificarlo in tempi brevi, il che comunque significherebbe anni.
Il secondo atto riguarda la scuola. Qui invece il ministro ha azzerato la riforma del centrosinistra e, dopo tante contestazioni, ne ha proposto un'altra. Per la verità nel giro di due mesi ne ha proposto due. La prima, a conclusione della 'convention' di dicembre a Roma, in base alla quale le riviste di pedagogia e quelle specializzate di settore avevano già stampato e diffuso largamente il modello; la seconda, a febbraio quando un incontro tra i responsabili politici delle forze della maggioranza lo ha modificato, con una nuova diffusione del modello da parte delle riviste pedagogiche e specializzate, anche se con meno enfasi rispetto alla prima volta.
Il nuovo testo però, a distanza di un mese dalla approvazione del consiglio dei ministri, non è ancora stato trasmesso alle Camere.
Si dice che ci siano (ed è vero) problemi di copertura ma non si può escludere che la faticosa mediazione raggiunta in seno alla maggioranza porti ad ulteriori cambiamenti. Specialmente in merito all'anticipo della scolarizzazione e al rapporto tra scuola e formazione professionale.
Il terzo atto riguarda proprio il rapporto tra scuola e formazione professionale. La legge delega ha soltanto enunciato un orientamento. Come tradurlo?
Non è certamente facile perché i rapporti di forza tra stato e regioni sono in corso di definizione e inoltre si sa bene che la capacità di gestione della formazione professionale da parte della maggior parte delle regioni italiane è bassissima certamente non sempre in grado di assumersi la responsabilità di un sistema così complesso come sarà quello dei rapporti tra la scuola dei differenti canali liceali e quella del sistema di istruzione e formazione professionale. E' infine possibile che tutto, proprio per le reali difficoltà, resti come prima, così come è avvenuto per la riforma di struttura della scuola.
Infatti si è detto tanto, si è polemizzato tanto e alla fine la scuola primaria resta di cinque anni, la scuola media di tre anni, la scuola secondaria di cinque anni. Tutto il sistema viene però anticipato, non troppo ma tanto da creare più danni che elementi di vantaggio.
Così la scuola dell'infanzia e la scuola primaria dovranno rivedere i loro percorsi e i ragazzi che escono dalla scuola media a tredici anni e mezzo saranno costretti già a orientarsi verso la scuola o la formazione professionale. Persino la Confindustria si è dichiarata contraria ad una scelta tanto precoce.
Così la riforma promessa diventa, come dice Mario Reguzzoni con un buon titolo su Aggiornamenti sociali, una 'controriforma' in realtà è soltanto un peggiormento del sistema precedente, non essendo attiva la riforma del centrosinistra. Per l'università l'operazione di 'ritorno indietro' non è riuscita, ma anche per la cultura scolastica non sarà facile il tentativo di fermata. L'inquietitudine è molto forte. E' difficile pensare che la managerialità sia la ricetta adeguata. Un asse culturale è indispensabile. Occorre soltanto averlo.


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