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La deriva della scuola: intervista a Raffaele Simone

La deriva della scuola: intervista a Raffaele Simone Casa della Cultura - 04-04-2002 Intervista a Raffaele Simone, ordinario di Linguistica Generale all'Università Roma Tre. di Agnese Berte...

04/04/2002
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La deriva della scuola: intervista a Raffaele Simone
Casa della Cultura - 04-04-2002

Intervista a Raffaele Simone, ordinario di Linguistica Generale all'Università Roma Tre.
di Agnese Bertello

Una visione impietosa e un futuro a tinte fosche: la scuola per Raffaele Simone è metodologicamente e cognitivamente lenta, scollegata dal mondo reale degli studenti e incapace di comunicare con loro. La riforma serviva venti anni fa, correre ai ripari aiuta poco e poche sono le speranze che il linguista lascia a processi di riforma come quelli finora abbozzati.

Nel suo ultimo libro, "La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo", lei parla di incapacità costituzionale, di lentezza metodologica e cognitiva della scuola: c'è modo di correre ai ripari? Può farlo una riforma?

Una riforma sarebbe stata necessaria venti anni fa, quando il pianeta dei giovani è esploso culturalmente e la scuola ha cominciato ad annaspare nel vano tentativo di stare dietro ai cambiamenti. Negli ultimi venti anni lo scarto tra il mondo-dentro-la-scuola (quello che soglio chiamare la endopaideia) e il mondo-fuori-della-scuola (quella che soglio chiamare la esopaideia) si è aggravato enormemente. I fenomeni di cambiamento che ho descritto nel mio libro sono avvenuti, con tutta evidenza, fuori della scuola. La scuola resta ancora, e largamente, nella Seconda Fase, quella dominata dalla tipografia e della scrittura. Ma i giovani la respingono! Come mettere d'accordo le due cose?

Nello stesso libro sostiene anche che la scuola è stata sorpassata in importanza da altre 'agenzie' formative che le fanno concorrenza. Si può passare dalla concorrenza alla collaborazione? È questa secondo lei la strada da percorrere?

Una collaborazione tra scuola e altre agenzie formative sarebbe utile e urgente. Ma, ripeto, lo sarebbe stata ancora di più venti anni fa; oggi la cosa mi pare molto più complicata, dato che i giovani non attingono ad agenzie formative riconoscibili e fisicamente delimitate, ma ad una intera galassia (come si dice) diffusa di centri, ad una varietà di tam tam culturali. Anche solo una mappa di queste entità sarebbe utile, ma mi pare difficilissima a farsi. In ogni caso, rimane secondo me indispensabile che la scuola faccia qualcosa per inglobare alcuni degli aspetti della cultura giovanile (per esempio la musica e le forme associative).

Dobbiamo metterci il cuore in pace allora e augurarci una rivoluzione del sapere per avere dei giovani che siano davvero preparati ad affrontare la società del futuro?

La rivoluzione è già cominciata, e si chiama no-global. La scuola, ancora una volta, non ne sapeva niente, anche se i giovani del no global hanno spesso attorno a 18 anni, e sono quindi in età scolare (anche se questa espressione suona oggi malinconicamente démodée). In ogni caso, il futuro che si apparecchia a molti di questi giovani è un futuro al quale essi non vogliono affatto prepararsi. Vogliono, al contrario, distruggerlo o almeno limitarlo fortemente e orientarlo in maniera diversa. Che cosa sa la scuola di tutta questa dialettica? Nulla.

Nello stesso tempo Lei segnala che, per quanto statica, la cultura trasmessa dalla scuola è qualitativamente superiore a quella che assorbiamo dal mondo esterno. E allora? Forse quello che dobbiamo chiederci è: che cosa vogliamo dalla scuola, che fine possiamo assegnarle?

La cultura della scuola è superiore dal punto di vista della complessità, su questo non credo che ci sia alcun dubbio. Ma i giovani, nel semplificarsi dei loro appelli, non mostrano particolare interesse verso le forme di sapere complesse, e soprattutto non verso l'atteggiamento analitico-scientifico che la scuola (almeno nei paesi evoluti, non certo in Afghanistan) pensa invece di insegnargli. Si tratta quindi di un gigantesco scontro di prospettive e di orizzonti, sul quale è necessario riflettere a fondo.

Quello che lei registra è uno scollamento totale tra i giovani e la scuola. Per gli studenti esiste la realtà ed esiste la scuola - mondo parallelo, finzione. Quale punto di contatto si può trovare?

La soluzione mi pare una sola. La scuola deve aprirsi al mondo dei giovani, incorporarne i moventi, e diventare in parte un forum dei loro problemi. Lo sforzo non è da poco, anche perché agli insegnanti non si può chiedere anche di lavorare come operatori sociali (o, come si dice ora, "limitatori del danno")! In ogni caso, un simile sforzo di apertura è comunque rischiosissimo, e potrebbe perfino portare alla morte della scuola, alla descolarizzazione.

Le riforme - e intendo sia quella proposta dalla sinistra e ora bloccata, sia le dichiarazioni programmatiche in merito del ministro dell'Istruzione Letizia Moratti, dal punto di vista pedagogico insistono sull'acquisizione di 'abilità', sul saper fare, piuttosto che sul 'sapere'. Ritiene che questo tipo di approccio sia effettivamente utile?
Credo che non ci possano essere abilità senza nozioni sottostanti, per lo meno non in una scuola evoluta di un paese evoluto. È la solita differenza tra tecnica (abilità senza nozioni) e tecnologia (nozioni senza abilità). Si tratta di fondere le due cose, ricordando, come diceva il grande Bertrand Russell, che "non c'è nulla di più pratico di una buona teoria". Il guaio è che, con i movimenti che si percepiscono oggi nel mondo dei giovani e della società, le abilità e le nozioni di cui parla la scuola non sono proprio le stesse di cui parlano (o a cui pensano) i giovani...


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