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La controclassifica dove l’Italia supera Harvard e Stanford

Il sito Roars aggiunge un parametro alla classifica di Shangai e i risultati sono a sorpresa con le italiane in testa

18/08/2015
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Corriere della sera

di Gianna Fregonara

Harvard prima. Poi Stanford e il Mit e Berkeley, Cambridge e Princeton. Sedici americane, tre inglesi e una svizzera (l’Istituto di tecnologia di Zurigo) sono le migliori venti università del mondo, secondo la classifica pubblicata a Ferragosto dalla Shanghai Jiao Tong University (Arwu). Le italiane, come negli scorsi anni, sono ancorate dopo il 150esimo posto su 500. Cinque quest’anno - erano sei nel 2014 - tra il 150 e il 200esimo gradino: la Sapienza, l’Università di Milano, e poi Padova, Pisa e Torino. Venti in tutto entro l’ultima posizione.
Difficile, messe così le cose, poter esultare per il nostro sistema universitario, nonostante il rettore della Sapienza Eugenio Gaudio abbia subito rimarcato la riconferma del risultato dello scorso anno per il suo ateneo. Impossibile per le nostre università scalare oltre le classifiche - tutt’al più può succedere che da un anno all’altro «rosicchino» qualche posizione - se si usano i criteri dell’istituto cinese: il numero di ex studenti che hanno preso il Nobel, il numero di premi Nobel che fanno parte del corpo insegnante, il numero di ricercatori con maggiori citazioni scientifiche e di studi pubblicati nelle riviste specializzate.

La vittoria degli Atenei italiani

Ma Giuseppe De Nicolao, professore di Ingegneria a Pavia e collaboratore della rivista online Roars, ha provato ad aggiungere un altro indicatore ai dati raccolti a Shanghai, per stilare una classifica «dell’efficienza delle università che mettesse a confronto i risultati con la spesa», dividendo cioè i costi di gestione di ogni università per il numero di punti raggiunti. E a sorpresa - mettendo a confronto i primi venti atenei della classifica Arwu e i venti atenei italiani che vi sono classificati - a guidare questa «gara» sono quattro università italiane: la Scuola Normale di Pisa, l’Università di Ferrara, Trieste e Milano Bicocca, e nei primi dieci posti otto sono gli atenei italiani mentre a reggere il confronto dell’efficienza tra le grandi università ci sono solo Princeton e Oxford.
Non solo, secondo la classifica di Roars , poiché i punti che l’università conquista per i meriti dei suoi studenti e dei prof sono aggiuntivi, se si fondessero due o tre atenei i risultati sarebbero di molto migliori: «Ad esempio, se si unificassero, operazione priva di qualsiasi valore reale, la Statale, la Bicocca e il Politecnico, una futura università milanese potrebbe aspirare a entrare nei primi venti posti».

Il conto dei finanziamenti

Lo scopo della controclassifica, che sarà pur un divertimento ferragostano o una «sfida infernale» come la definisce il suo autore, è rimarcare che il sistema italiano è sottofinanziato (la qual cosa non è una novità visto che la spesa pubblica italiana per l’università in rapporto al Pil è la penultima in Europa) e tuttavia «nel suo complesso non è meno efficiente di quelli delle maggiori nazioni straniere»: Harvard per le spese correnti ha un costo che è pari al 40 per cento dell’intero fondo per l’università, in altre parole «ventimila studenti hanno a disposizione poco meno della metà di quello che da noi finanzia un sistema con oltre un milione e mezzo di studenti». Si tratta anche di uno scatto di orgoglio a difesa del lavoro degli atenei che all’apparire delle classifiche internazionali diventano bersaglio di critiche e polemiche: «L’università è come un’automobile - spiega De Nicolao - può anche essere una super-car ma se non avesse benzina non andrebbe avanti e da questo non si prescinde».

«La Maserati senza benzina non cammina»

La domanda alla quale la controclassifica di Roars non risponde è però perché, se gli atenei italiani sono efficienti, fatichino così tanto ad attrarre talenti stranieri mentre il sogno di studenti, ricercatori e professori siano le università americane da Harvard in giù, che tra l’altro garantiscono spesso maggiori opportunità in termini di carriera e di lavoro: «Tutti vorremmo la Maserati, se potessimo. Tuttavia non va dimenticato che persino negli Stati Uniti gli alti costi dell’università e i criteri di selezione degli studenti stanno creando problemi gravi. Quanto all’Italia troppo spesso creiamo talenti che poi vengono assunti all’estero perché qui non ci sono opportunità adeguate».


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