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La Buona Scuola aiuterà i ragazzi?

Analisi di una riforma controversa

10/07/2015
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Corriere della sera

Orsola Riva

Quando, a settembre dell’anno scorso, il presidente del Consiglio Matteo Renzi lanciò il suo progetto di riforma del sistema di istruzione con una consultazione aperta a tutti, la Buona Scuola sapeva davvero di buono. Come non rallegrarsi tutti, a partire dalle famiglie, che dopo anni di tagli pesantissimi (dal 2007 al 2012 nessun settore della Pubblica amministrazione ha dato tanto quanto la scuola: fuori un insegnante su dieci, un’emorragia da oltre 75 mila prof), finalmente un governo invertisse la rotta tornando a scommettere sul capitale umano? Come non festeggiare l’immissione in ruolo di 100 mila supplenti altrimenti condannati alla lotteria delle assegnazioni a scuole ogni anno diverse, con una pesante ricaduta sugli apprendimenti dei nostri ragazzi? Eppure ieri erano davvero in pochi a festeggiare in Aula e soprattutto fuori. Contrarie le opposizioni, assenti 24 deputati pd (ma quella è una partita politica che poco ha a che fare con la scuola), sulle barricate sindacati, docenti e studenti che già promettono un autunno caldissimo di ricorsi in tribunale, scioperi e occupazioni. Che cosa è successo da settembre a oggi se anche Renzi è stato costretto a fare autocritica e a riconoscere che ci dev’essere stato un difetto di comunicazione? Principalmente due cose: in primo luogo il governo non si è reso conto che per sanare un’ingiustizia ne creava un’altra. Stabilizzare tutti e solo i precari storici (che da anni giacevano nei gironi infernali delle graduatorie provinciali tanto da avere nel frattempo rinunciato a insegnare), significava tagliare fuori altre decine di migliaia di supplenti delle graduatorie di istituto che invece, giorno dopo giorno, danno un contributo fondamentale al funzionamento delle nostre scuole.

Poi, e qui forse ha prevalso davvero un difetto di comunicazione, c’è stata l’invenzione della figura del preside-manager o preside-sindaco, subito ribattezzato da sindacati e insegnanti preside-sceriffo (addirittura preside-faraone per i più immaginifici). A lui, in una prima versione del Ddl poi corretta in seguito alle proteste, era attribuito potere di vita o di morte sui prof: lui li assumeva, lui li licenziava, lui li premiava a proprio insindacabile giudizio. Poi si è corsi ai ripari spiegando che no, non avrebbe deciso tutto da solo: che tutte queste decisioni sarebbero state prese d’accordo con gli organi collegiali della scuola, insegnanti, genitori e perfino studenti. E qui di nuovo i professori sono insorti: ma siamo matti? farci giudicare dagli studenti? Non bastano già i continui falli di reazione dei genitori, sempre pronti a intervenire in difesa dei figli? Il fatto è che ormai si era rotto il meccanismo di fiducia fra le parti necessario per portare avanti quel processo di valutazione di cui pure la scuola italiana avrebbe tanto bisogno. Lo sciopero unitario dello scorso 5 maggio che ha portato in piazza quasi 700 mila docenti, è un capolavoro al contrario del governo, che è riuscito a ricompattare tutte le sigle facendo saltare la linea di demarcazione fino a quel momento nettissima fra responsabili e contrari a tutti i costi. Non a caso il movimento di opposizione alla Buona Scuola ha tracimato in un boicottaggio senza precedenti delle prove Invalsi che, dopo anni di false partenze e barricate, faticosamente stavano diventando una consuetudine tutto sommato accettata nelle nostre scuole.

Ma la cosa più grave è che nel braccio di ferro fra governo da un parte e sindacati, professori e studenti dall’altra, ci si è completamente dimenticati della sola cosa che davvero importasse: i ragazzi e i loro bisogni. Anche le ultime rilevazioni Invalsi confermano impietosamente il quadro di un Paese profondamente diviso: con i ragazzi settentrionali che rivaleggiano con i campioni del Nord Europa e quelli del Sud condannati a competere con i coetanei kazakhi. E mentre la Buona Scuola promette di potenziare, anche con buone intenzioni e buone ragioni, Arte, Musica e Discipline Motorie (per non parlare delle lingue e del digitale), i nostri figli continuano ad arrancare in Matematica e in Italiano. E i sette insegnanti in più che il ddl promette a ogni scuola rischiano di non essere quelli giusti per recuperare il gap dal momento che, solo per fare un esempio, i prof di matematica alle medie (ovvero proprio in quel segmento nel quale inizia ad allargarsi la forbice fra Nord e Sud per poi consolidarsi inesorabilmente alle superiori) scarseggiano nelle graduatorie provinciali. O più precisamente: abbondano al Sud (record a Napoli, con 241 docenti iscritti - dati 2014 - segue Catania con 190 e Palermo con 165) e sono quasi esaurite al Nord (1 iscritto a Asti, Cremona e Mantova, 19 a Torino, 31 a Milano).

E così a settembre si preannuncia il caos: decine di migliaia di docenti accetteranno naturalmente il ruolo anche fuori dalla propria provincia perché al posto fisso non si può dire di no. Ma, trattandosi nella maggioranza dei casi di donne di mezza età, è naturale che, passato il primo anno di prova con i suoi 180 giorni di presenze obbligatorie, cercheranno di trovare il modo per tornare a casa. E nel frattempo si moltiplicheranno i certificati di malattia. E mentre a una metà degli assunti verrà assegnata una cattedra (fra posti vacanti e disponibili e turnover si parla di circa 45 mila prof), tutti gli altri (circa 55 mila) entreranno a far parte di quell’organico dell’autonomia che, nelle intenzioni, è destinato al compito sacrosanto di potenziare l’offerta formativa, ma in questa prima fase rischia di servire soprattutto a tappare i buchi. Maestre delle elementari verranno mandate a fare supplenze alle medie e viceversa. Con un danno materiale evidente per bambini e ragazzi (nel primo caso rischiano di mancare le competenze didattiche e nel secondo quelle pedagogiche). E un danno morale per i malcapitati prof che si troveranno ancor più delegittimati del solito davanti alla classe. Per Per non parlare dei poveri presidi che in molti casi già si trovano a gestire tre o quattro scuole diverse più quelle in reggenza e sulle cui spalle verrà rovesciato il rebus di far coincidere i bisogni della scuola con il capitale umano messo a disposizione da questa tornata di assunzioni.

Ma poiché ormai la Buona Scuola è legge, conviene pensare positivo. E riconoscere che, pur con tutte le sue imperfezioni, il Ddl renziano rappresenta un investimento sul futuro senza precedenti (1 miliardo nel 2015, tre a regime). E rimboccarsi le maniche per farlo funzionare in modo che, a regime, anche se ci vorranno anni, esso serva davvero a dare gambe a quell’autonomia scolastica che è legge ormai da più di quindici anni, ma è rimasta lettera morta anche per la cronica mancanza di mezzi (fin troppo facile ricordare, come ha fatto oggi l’onorevole pd Simona Malpezzi di fronte alle proteste dell’opposizione, che almeno con i soldi in più messi dal governo i genitori non dovranno più portare la carta igienica a scuola). Si tratta, insomma, di scommettere sulle ambizioni più alte di questo Ddl che vorrebbe ripensare la scuola non più solo come centro di erogazione di lezioni frontali ma come luogo di confronto e miglioramento continuo dove il preside, forte della sua squadra di docenti, scommette per esempio sul potenziamento dello spagnolo (che è ormai diventato la seconda lingua più parlata del mondo), destina alcuni prof al recupero degli studenti in difficoltà e altri all’orientamento scolastico facendo da ponte fra scuola e lavoro e scuola e università. Al governo a questo punto l’onere, nella fase di scrittura del testo unico e delle deleghe, di migliorare il disegno di legge per farlo davvero camminare, se non volare. Come ha detto saggiamente l’ex ministro Luigi Berlinguer, padre della legge sull’autonomia: «Facile tirar fuori l’olio dall’ulivo. Questa è piuttosto una legge olivastro, ci vuole la testa dura. Mettiamo alla prova questo testo. Diamo l’opportunità di verificarlo alle associazioni e ai docenti. Se in itinere emergessero nodi o l’intero impianto che non va, si può sempre modificare».


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