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L’Università fra i denti

L’incarico conferito a un giornalista televisivo (ex-jena) di controllare i concorsi universitari per svelarne le irregolarità e i soprusi, più che una svolta nell’andamento universitario, sembra il passo finale (o almeno l’ultimo in ordine di tempo) di uno slittamento dell’Università da luogo di cultura e insegnamento ad azienda.

08/09/2018
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il manifesto

Ginevra Bompiani

L’incarico conferito a un giornalista televisivo (ex-jena) di controllare i concorsi universitari per svelarne le irregolarità e i soprusi, più che una svolta nell’andamento universitario, sembra il passo finale (o almeno l’ultimo in ordine di tempo) di uno slittamento dell’Università da luogo di cultura e insegnamento ad azienda.

Ho insegnato all’Università per vent’anni e in tutte le tappe della mia cosiddetta carriera sono stata testimone o bersaglio di manovre per volgere il concorso a favore del protetto di un qualche professore.

La prima volta, prima ancora di cominciare, fu a Roma. La seconda in provincia, la terza sempre in provincia ma la manovra partì da Roma, con il concorso, forse involontario, del Ministero.

Sebbene mi sia sempre battuta contro i comportamenti baronali, sono sempre stata sconfitta.

E tuttavia ero quasi sempre al corrente delle manovre e sono di carattere battagliero.

Mi chiedo perciò che cosa possa fare la più agguerrita ‘jena’ in questa selva, se non mordere qua e là. Quali sarebbero i suoi criteri?

La meritocrazia? E quali sono i criteri della meritocrazia? Il numero delle pubblicazioni? La loro lunghezza?

Ma questo è appunto uno degli argomenti che servono a scartare candidati di pregio (con poche, interessanti pubblicazioni) e favore dei ‘protetti’ (che magari pubblicano dove possono quel che scola dalla penna). Giorgio Manganelli è stato appunto scartato dall’Università con questo criterio. Ne è rimasto amareggiato, credo, per tutta la vita.

E la valorosa ‘jena’ sarebbe in grado di riconoscere Manganelli prima che Manganelli sia conosciuto?

La ragione per cui i ‘baroni’, cioè professori universitari di fama, proteggono alcuni loro allievi è almeno duplice: consolida il loro potere e permette al ‘giro di favori’ di scorrere senza intoppi.

E non bisogna credere che la fama o la qualità delle opere siano un freno a queste pratiche. Un professore che non ne fa uso si riconosce semplicemente dal suo isolamento, dal tempo che ci mette ad arrivare a Roma o dalle remote sedi in cui si aggira.

Ma, naturalmente, nemmeno questo è un criterio sufficiente.

Non c’è dunque niente da fare? Come al solito, c’è molto da fare, ma non nella forma di una trovata o di un colpo di mano.

In questione è la dignità riconosciuta e preservata dell’insegnamento e della cultura, cioè della funzione del professore di ogni grado.

Dignità che le ultime riforme universitarie e scolastiche hanno minato con pervicace intento imprenditoriale e crescente desiderio di controllo.

In altre parole, è la sfiducia nella libertà della cultura che affonda l’Università, non il suo eccesso.

Ricordo che all’Università di Siena, finché vi insegnò Franco Fortini, i Consigli di Università erano luoghi di riflessione su alti problemi dello spirito. Non appena andò in pensione, divennero la bottega delle cattedre.

Bisogna che i veri professori, coloro che non si curano di burocrazia o di carriere, ma inseguono la passione e l’intelletto, abbiano la libertà di incontrare gli studenti all’altezza della passione e dell’intelletto di costoro.

Bisogna che l’Università si modelli su di loro e non sugli ubbidienti manutengoli del profitto. Che parole come ‘crediti’ e ‘debiti’ spariscano dalla macchina
degli esami e che ad esami e concorsi si sostituiscano altre forme di valutazione più consone al fine dell’insegnamento: che non è il posto di lavoro, ma la qualità e l’ampiezza dello sguardo.

Sia però un manipolo di professori universitari, di tutti i livelli, scelti secondo criteri non politici (la politica non c’entra nulla, i comportamenti di destra e di sinistra sono gli stessi), ma intellettuali e morali – che siano loro a porsi il problema della qualità dell’insegnamento e di come preservarlo.

Con tutto il rispetto per un pregiato giornalista, i criteri da seguire sono universitari e non televisivi.


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