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Istituti comprensivi....a regola d'arte

il Governo ne fa una operazione di riduzione secca della spesa per l’istruzione (introducendo la soglia capestro dei mille alunni “minimi” per godere dell’autonomia) e lucrando sui posti di dirigente che vengono meno

06/10/2011
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ScuolaOggi

Red Rom

L’idea è forte. L’istituto comprensivo rappresenta la “via italiana” alla scuola di base. Non butta all’aria le tradizioni gloriose di scuole dell’infanzia, elementari e medie (ciascuna gelosissima della propria identità), ma le invita a ripensarsi in un comune progetto pedagogico, in una idea condivisa di scuola dai 3 ai 14 anni (e sarebbe bello arrivare fino a 16 anni, come nei paesi scandinavi). Sappiamo che a 14 anni i destini “sociali” dei ragazzi sono già segnati: chi va al Liceo non incontrerà mai più chi va ai professionali. Si interrompe una strada comune (e questo avviene troppo presto, se guardiamo a ciò che succede in Europa). Diventa indispensabile rafforzare la formazione di base, quella comune, sulle competenze fondamentali di cittadinanza: il leggere, scrivere far di conto per il terzo millennio. Una bella impresa, che potrebbe ricaricare le pile alquanto esaurite dei docenti della scuola italiana (da troppi anni, ormai, alle prese solo con cattive notizie).

Invece, l’impressione è che il gioco sia di altro tipo, lontano da queste nobili ragioni; che il blitz dell’art. 19 della manovra estiva (Legge 111/2011) abbia imposto la generalizzazione dell’istituto comprensivo per ragioni economiche, a prescindere da una riflessione approfondita sulle condizioni che possono renderlo un modello di qualità.
Infatti:
- il Governo ne fa una operazione di riduzione secca della spesa per l’istruzione (introducendo la soglia capestro dei mille alunni “minimi” per godere dell’autonomia) e lucrando sui posti di dirigente che vengono meno;
- le Regioni fanno le prove di un “federalismo” ancora acerbo, intentando ricorsi seriali alla Corte Costituzionale, per rivendicare le loro posizioni;
- gli Enti locali “manovrano” spesso secondo convenienza, quando invece si tratta di ridisegnare il volto di paesi e città;
- i dirigenti scolastici vorrebbero “decifrare” l’oggetto “comprensivo”, ma sembrano preoccupati soprattutto della complessità di un modello organizzativo che rimette in discussione assetti consolidati e crea stress in uffici di segreteria sempre più striminziti (come se non bastassero le reggenze);
- gli insegnanti, un po’ timorosi e molto guardinghi, soppesano soprattutto ciò che potrebbero perdere, piuttosto che immaginare ciò che possono guadagnare.
Di fronte a questi rischi di minimalismo, vanno riprese le motivazioni forti dell’istituto comprensivo, la sua vera “ragione sociale”: costruire un percorso coerente, unitario, condiviso, di cui gli insegnanti della comunità professionale dell’istituto comprensivo si prendono cura e di cui diventano responsabili, insieme, senza “scaricabarile” (sennò, che comprensivo è?). Questo non significa parlare solo di continuità educativa (ormai è un oggetto vintage e strumentalmente lo si usa come il prezzemolo, anche nei decreti), ma soprattutto di discontinuità sostenibile, cioè di una effettiva progressione degli apprendimenti negli allievi, dai tre ai 14 anni, che dovrebbe avvalersi della regia comune degli insegnanti (con il dirigente a fare da “animatore” e da garante).
Ad esempio, potrebbe essere assai stimolante articolare il curricolo in verticale per bienni (un po’ diversi da quelli proposti nella legge 53/2003 e più simili a quelli adottati in provincia di Trento), in cui ad ogni biennio viene affidato un compito formativo specifico (dal biennio iniziale dell’unitarietà, a quello della integrazione, a quello della specializzazione, a quello dell’opzionalità, se vogliamo seguire il design dei piani di studi trentini). I ragazzi avrebbero la percezione di “crescere” e di misurarsi con nuove sfide, gli insegnanti avrebbero la possibilità (il dovere) di caratterizzare le aule come ambienti di apprendimento, le didattiche dovrebbero uscire dallo schema “spiegazione-esercizio-verifica” e passare almeno a quello “problemi-compiti-rielaborazione-produzione”.
Insomma, un’ideale “carta di intenti” che porta alla nascita di un istituto comprensivo dovrebbe sempre aprirsi con un preambolo valoriale e non limitarsi a “dare i numeri”.
Dunque, falsa partenza? Il rischio c’è, se la “storia” dei nuovi comprensivi si riducesse ad una mera operazione sulle carte geografiche, con un dimensionamento “politically correct”, con numeri da rispettare, con “poteri forti” da accontentare. Deve invece diventare una “narrazione” sulla possibile scuola di base per il futuro, su cui fare un investimento per i prossimi dieci anni: una riforma da costruire dal basso, con la voglia di rimettersi in gioco e di ripensarsi.


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