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In gioco è l'identità dell'insegnante-Intervista

www.casadellacultura.it In gioco è l'identità dell'insegnante Intervista a Renata Viganò, direttrice della SSIS dell'Università Cattolica di Milano di Agnese Bertello Fino a pochi anni fa,...

19/10/2002
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In gioco è l'identità dell'insegnante
Intervista a Renata Viganò, direttrice della SSIS dell'Università Cattolica di Milano
di Agnese Bertello

Fino a pochi anni fa, l'unica cosa che si chiedeva all'insegnante era di conoscere la materia; in nessun modo veniva indagata la sua capacità di insegnare, di trasmettere il suo sapere, di comunicare e tessere relazioni con studenti e colleghi. Questo ha fortemente compromesso il senso della propria identità professionale. Oggi è ancora così? Ne parliamo con Renata Viganò, direttrice della Scuola di Specializzazione per insegnanti della Cattolica.

Lei lavora con persone che vogliono diventare insegnanti, li forma per la professione. Con quale spirito si avvicinano all'insegnamento? Quali sono le loro aspettative? che consapevolezza hanno della realtà della vita in classe?

Il numero di posti disponibili è dato da una programmazione ministeriale regionale. È sostanzialmente un numero chiuso che rispecchia il fabbisogno dichiarato dal ministero. Lo scorso anno avevamo 372 posti, quest'anno i nuovi iscritti saranno 420. Tra loro, la percentuale di persone che ha già esperienze di insegnamento è decisamente superiore a quella di chi non ne ha alcuna. Direi che l'80% dei nostri studenti ha già lavorato in una classe, quelli che non vi hanno mai messo piede sono davvero pochi. Le aspettative sono abbastanza diversificate. Direi che all'inizio si iscrivono soprattutto per motivazioni poco nobili: la SSIS è oggi il canale obbligatorio per prendere l'abilitazione. Se voglio fare l'insegnante so che devo passare da qui e si sa che con l'abilitazione in mano prima o poi un incarico salta fuori. Nel corso del biennio, però, c'è una progressiva presa di coscienza di ciò che si sta facendo; c'è la percezione di aver fatto un percorso in termini di identità professionale che ha portato anche all'acquisizione di competenze complesse, ma si ha anche una maggiore consapevolezza di sé come risorsa all'interno della scuola. Nessun insegnante prima aveva queste possibilità, questa formazione professionale specifica.

Che peso date agli aspetti pedagogici, al tirocinio, alla riflessione sugli aspetti relazionali del lavoro?

C'è una suddivisione molto chiara tra gli elementi, anche in questo caso in base alla normativa e al decreto ministeriale che ha definito la struttura della SSIS. Devono esserci insegnamenti di natura disciplinare, aggiuntivo e complementare rispetto a quello che lo studente ha acquisito durante il corso di laurea; aspetti pedagogici, metodologici, didattici; aspetti di psicologia e di sociologia dell'istituzione scolastica; attività di laboratorio connesse ad entrambe le aree, la rilettura della pratica dell'insegnamento della disciplina e gestione della relazione educativa; poi il tirocinio. Grossomodo sul monte ore totale (1000 ore circa nel corso del biennio), direi un 25% per ogni area, con una leggera prevalenza del tirocinio.

Il tirocinio è da molti indicato come una valida soluzione, ammesso che sia realizzato adeguatamente...

Così come è inteso da noi, il tirocinio diventa un progetto formativo vero. Gli studenti sono monitorati dai supervisori, insegnanti di ruolo che dopo aver superato un concorso sono distaccati presso la SSIS con il compito proprio di seguire il percorso dei tirocinanti. Il tirocinio non è solo partecipazione all'attività di classe, ma all'attività scolastica complessivamente intesa, implica una partecipazione a tutti i momenti della vita della scuola, implica stretti rapporti con i colleghi, implica un lavoro di preparazione delle attività. Non si mette il tirocinante della SSIS in classe il primo giorno. Prima c'è una sorta di tirocinio indiretto in cui si costruisce e si prepara il tirocinio, si danno gli strumenti. Come dicevo il tirocinio è un progetto, parte integrante anche dell'esame di stato finale e ciò che ci preme fin dall'inizio è identificare un obiettivo nel tirocinio.

Il sociologo Alessandro Cavalli, sostiene la necessità di fare una selezione all'inizio della carriera; la sua idea è che non tutti possono fare gli insegnanti, non tutti hanno il temperamento giusto, le caratteristiche psicologiche necessarie (idealisti, sognatori, troppo emotivi), le competenze relazionali' La SSIS è anche un canale di selezione? Ci sono studenti che non hanno superato l'esame di stato finale?

Pochissimi. Stiamo concludendo il secondo ciclo come esame finale, penso che si tratti al massimo di tre quattro persone. Un numero del tutto fisiologico. Abbiamo cercato di capire il perché: il mancato superamento non è dovuto al problema in sé dell'esame finale, ma fin dall'inizio il percorso di questi studenti era stato problematico. Quindi, sì, in qualche modo, la SSIS è stata un meccanismo di selezione. La selezione si fa anche all'inizio, con l'esame d'ammissione, ma difficilmente in questo caso si indaga sulla motivazione motivazione, l'attitudine; quello che si vuole attestare sono le competenze disciplinari. La selezione vera avviene nel corso del biennio. Il tirocinio serve molto in questo senso per costruirsi un'idea più realistica e più efficace di che cosa vuol dire insegnare. Chi non è adatto per temperamento a svolgere una funzione del genere, col tirocinio vede messe a nudo le sue difficoltà.
Fare l'insegnante non può essere considerata una delle tante scelte professionali possibili; se l'ingresso diventa più difficile, la scelta deve essere più determinata, non è più una scelta di ripiego.

Norberto Bottani è convinto che ci sia un legame diretto tra l'eccesso di insegnanti e il loro disagio psichico? Concorda?

Condivido questo tipo di lettura. I dati della ricerca sul burnout sono riferiti ad una popolazione insegnante che non è mai stata selezionata, accompagnato, scortato' aiutato nell'affrontare problematiche molto difficili, che poi possono portare a sviluppare una sindrome come quella del burnout. Fino a pochi anni fa gli insegnanti facevano gli insegnanti perché erano persone preparate sul piano disciplinare, ma questo non significava necessariamente che fossero pronti ad affrontare aspetti peculiari del proprio mestiere. Davanti a dati come quelli dello Studio Getsemani, dati che non voglio definire allarmanti perché è un termine che non mi piace, ma che comunque richiedono una riflessione, non possiamo pensare semplicemente di risolvere la situazione inserendo lo psicologo a scuola o facendo corsi di aggiornamento: sono iniziative necessarie, ma funzionali solo se si parte da una rilettura complessiva, prendendo il problema dall'origine. La sindrome del burnout secondo me fa saltar fuori proprio il problema di una mancata costruzione dell'identità professionale. Il problema è poi legato anche dalla trasformazioni sociali e culturali che hanno coinvolto la professione dell'insegnante. Il ruolo non è più uguale a quello di 50 anni fa.

Quasi tutti, insegnanti e sociologi, sono concordi nell'affermare che la scuola è un'istituzione autoreferenziale, chiusa su se stessa e che questo sia oltremodo nocivo. Che cosa ne pensa?

Ne sono convintissima. La scuola è uno strumento della società. La società ne ha la responsabilità. Una responsabilità educativa che deve essere condivisa. Quella dell'educazione è una responsabilità che il mondo adulto assume nei confronti delle nuove generazioni e nel momento in cui alcuni aspetti vengono affidati a un'istituzione in particolare, non si tratta mai di delega, altrimenti torniamo alla scuola-parcheggio. Il disagio degli insegnanti riflette un disagio più complessivo di una società che è molto dimissionaria rispetto alla sua responsabilità educativa.


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