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In classe con gli altri. Quando funziona la scuola multietnica

Viaggio nelle scuole della discordia

12/09/2013
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la Repubblica

VLADIMIRO POLCHI
Così ora l’istituto rischia la chiusura. E la cronaca di questi giorni racconta di tanti altri focolai. Eppure la multietnicità è da anni un carattere consolidato della nostra scuola. Stando alle ultime previsioni del ministero dell’Istruzione, nell’anno 2013/2014 gli alunni di cittadinanza straniera sono ben 736.654, su un totale di 7.878.661 studenti previsti sui banchi delle scuole statali. Gli alunni non italiani restano concentrati per lo più nella scuola primaria (dove sono 271.857). E ancora: il loro record di presenze si registra in Lombardia (178.475 stranieri iscritti), seguita dall’Emilia Romagna (86.697). Ma attenzione: molti studenti figli
di immigrati sono nati in Italia (quasi il 50 per cento, con punte dell’80 per cento nella scuola dell’infanzia). Tradotto: se nel nostro Paese vigesse lo
ius soli,l’incidenza degli alunni stranieri sul totale sarebbe molto più bassa e le discussioni in corso sulle “quote multietniche” a scuola perderebbero in gran parte la loro ragion d’essere.
Arcangela Mastromarco, docente referente del polo Start 1 (Struttura territoriale per l’integrazione) di Milano, si occupa dell’inserimento degli studenti stranieri in 56 scuole elementari e medie del capoluogo lombardo: «Fare un tutt’uno degli studenti di cittadinanza non italiana è sbagliato – sostiene – perché c’è un’enorme differenza tra chi è nato qui e chi ci è arrivato a una certa età. Bisognerebbe allora trovare definizioni diverse, come distinguere tra studenti italofoni e non. E questo andrebbe spiegato con chiarezza ai genitori italiani per rassicurarli. Per
esempio a Milano il 60-70 per cento degli studenti stranieri iscritti alle elementari è di seconda generazione e dunque non
costituisce solitamente un intralcio che rallenta il percorso scolastico». Questo non vuol dire nascondere eventuali difficoltà:
«Chi pensa che un bimbo straniero alle elementari impari l’italiano solo ascoltando la lezione in classe, sbaglia. Ci devono
essere insegnanti specializzati, altrimenti i problemi arrivano eccome, e poi le difficoltà dai ragazzi passano agli insegnanti, fino ad arrivare ai genitori».
La questione è allora quella delle risorse. «A Milano e provincia – spiega la Mastromarco – nell’anno scolastico 1999/2000 c’erano 700 docenti facilitatori, destinati all’insegnamento dell’italiano ai neoarrivati, lo scorso anno erano solo 40. Se mancano le risorse, allora si giustifica il malcontento. Insomma, se hai in classe due o tre studenti neoarrivati (cioè arrivati in Italia nel corso dell’anno scolastico) e non del tutto italofoni, ti va in crisi l’insegnamento, ne risente tutta la classe e il rallentamento della didattica è inevitabile».
Forse è giusto allora distribuire sul territorio gli studenti stranieri. Il limite del 30 per cento di alunni non italiani per scuola
(introdotto con la discussa circolare Gelmini dell’8 gennaio 2010, su cui influirono le spinte leghiste che avevano anche proposto le classi ponte per gli immigrati) è infatti ancora valido. Anche se va oggi considerato un “tetto” solo indicativo e non obbligatorio. Lo ha chiarito, il 7 agosto scorso, il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, rispondendo ad un’interrogazione alla Camera: «Il diritto allo studio, nella mia visione, prescinde dall’origine geografica, dalla razza e dalla nazionalità. Conseguentemente il limite del 30 per cento degli alunni con cittadinanza non italiana sul totale degli iscritti è un criterio tendenziale e indicativo, che in base alla circolare può ben tollerare eccezioni, giustificate dalla presenza di alunni stranieri in possesso di adeguate competenze linguistiche, dalla disponibilità di risorse professionali e strutture di supporto, anche esterne alla scuola, da ragioni di
continuità didattica per classi costituite negli anni precedenti o da stati di necessità provocati dall’oggettiva assenza di soluzioni alternative».
Un tetto, quello del 30 per cento, già disapplicato da molte scuole italiane (circa un terzo). «Un limite che non distinguendo tra nati in Italia e neoarrivati – commenta la Mastromarco – non ha senso. E poi l’unico modo per non far “fuggire” gli italiani è potenziare le scuole dove ci sono tanti bimbi d’origine straniera, con un’offerta formativa, fatta di inglese, musica, informatica, che sia invitante per gli autoctoni. Come abbiamo fatto qui a Milano con la scuola di via Paravia».
Accanto alle storie di convivenza difficile, non mancano infatti casi di buon funzionamento delle classi multietniche. Un esempio? Nel quartiere di Torpignattara, a Roma, c’è una scuola elementare con 176 studenti, di cui solo 40 con la cittadinanza italiana. È la scuola Carlo Pisacane, spesso citata come modello di integrazione, per la sua offerta formativa all’avanguardia. Anche se va detto che pure qui negli ultimi tempi gli italiani iscrivono sempre meno i propri figli.
A misurarsi concretamente con la multietnicità tra i banchi è Luciana Zou, presidente del Cidi di Roma (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti) e docente di informatica all’istituto tecnico Armellini della capitale: «Lo scorso anno avevo una terza con il 40 per cento di studenti d’origine straniera. Accade sempre più spesso, infatti, che questi ragazzi scelgano gli istituti tecnici invece del liceo, perché pensano siano più facili e perché dirottati qui dai loro insegnanti delle medie». Anche per la Zou, «non ha senso parlare di studenti stranieri senza distinguere tra chi è nato in Italia o ci vive da tanti anni e chi è arrivato da poco». Ciò detto, «è indubbio che una classe multietnica comporta un maggiore impegno e richiede una preparazione estremamente solida da parte degli insegnati, che invece troppo spesso vengono abbandonati. Ma va chiarito – aggiunge – che
non sempre gli studenti stranieri rallentano la didattica. Anzi a me è accaduto più volte di verificare tra loro una più forte motivazione allo studio rispetto agli italiani, così da diventare addirittura un traino per l’intera classe ».
Eppure le prove Invalsi del 2012 hanno evidenziato che «lo scarto medio tra studenti stranieri di prima generazione e studenti italiani è di 23 punti in meno in italiano e di 16 punti in meno in matematica, mentre fra studenti stranieri nati in Italia e
studenti italiani il gap si riduce, rispettivamente, a 16 punti in meno nella prova di italiano e 12 punti in meno nella prova di matematica. Tutte differenze – sottolinea l’Invalsi – che sono in ogni caso significative».
Differenze che per Arcangela Mastromarco restano «il vero problema. Il gap riscontrabile anche tra le seconde generazioni e gli stessi insuccessi scolastici sono infatti dovuti a una sopravvalutazione del loro italiano di base e al conseguente mancato sviluppo di un italiano adatto allo studio. Questo è un errore che sta facendo sempre più spesso la scuola nel nostro Paese ».
E gli studenti stranieri cosa ne pensano? Mihai Popescu, romeno, ha vent’anni ed è in Italia dal 2003. Oggi studia Scienze politiche alla Sapienza ed è responsabile nazionale della Rete degli studenti medi: «Sono arrivato in Italia durante le elementari. Ero iscritto a una scuola in provincia di Frosinone. Non mi sono mai sentito discriminato, anzi molti compagni italiani mi hanno aiutato. Forse sono stato facilitato dal fatto che vivevo in una piccola realtà. Nelle classi che ho frequentato anche dopo, c’era sempre qualche altro studente straniero assieme a me».
Mihai è contrario alle classi ghetto, ma tende comunque a ridimensionare il problema: «Non credo – afferma – che siamo noi stranieri a minacciare il rallentamento della didattica, semmai lo sono stati i tagli all’istruzione degli anni scorsi, che hanno impedito alla scuola di stare dietro alle nuove sfide e a trasformare la diversità in ricchezza. Perché una cosa è certa – conclude Mihai – la multietnicità tra i banchi è ormai la normalità e la scuola non può chiamarsi fuori da questa sfida».


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