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Il valutatore seriale e il pompiere-incendiario

si tratterebbe, qualche volta, di non seguire e inseguire, ma di progettare, magari anticipando altri, magari attuando la Costituzione (la propria!) in tema di libertà di scienza, magari dandosi, se non una prospettiva lunga, una prospettiva, possibilmente di educazione libera al pensiero libero, non di semplice scalata di classifiche di produttività

11/10/2015
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ROARS

Enrico Mauro

«A qualcuno è occorsa tutta una vita per mettere sulla carta una parte dei suoi pensieri, per guardarsi intorno e descrivere il mondo e la vita come li vedeva lui, e poi salto fuori io e in due minuti… bum! è tutto finito».

Bradbury, Fahrenheit 451 (1951), tr. di G. Monicelli, Milano, 1978, rist. 2010, p. 61.

«Lo stato, che definisce la scienza, è già una chiesa. Per definire occorre ci sia il domma e il catechismo».Labriola, L’università e la libertà della scienza (1897, discorso inaugurale dell’anno accademico, Roma, 14 novembre 1896), a cura di S. Miccolis, Torino, 2007, p. 32.

C’era una volta, quando il ricercatore universitario non era un eterno valutando, eternamente esposto alle anonimamente trasparenti valutazioni del valutatore seriale, quando il ricercatore poteva concedersi il lusso di leggere qualcosa, naturalmente senza esagerare, per il gusto di leggere, per mera curiosità, quando non leggeva solo per scrivere e citare, scrivere e citarsi, scrivere e farsi citare, c’era una volta, si diceva, un ricercatore che aveva letto, come tanti in tutto il mondo, il romanzo da cui la prima citazione in epigrafe.

Oggi, riprendendo nostalgicamente tra le mani quel volume, il ricercatore — il quale sa fin troppo bene che questa divagazione antiproduttiva lo penalizzerà in sede di valutazione: tutto tempo sottratto alla produzione di sapere indicizzabile — ritrova sottolineature che gli danno da pensare. Gli danno da pensare che, tutto sommato, non sarebbe impossibile, con un po’ di immaginazione, intravedere qualche punto di contatto tra le aspirazioni del valutatore seriale e quelle incarnate dalla prima versione di Guy Montag, il protagonista della celebre distopia ‘bibliopirica’.

Il romanzo è universalmente noto: non è il caso di riassumerlo e i riferimenti non andranno al di là di quanto indispensabile per lo svolgimento di un’estemporanea riflessione.

Montag è un vigile del fuoco in un mondo in cui non esiste più un edificio che non sia costruito a prova di fuoco. È un mondo drogato di velocità fine a se stessa: «Non ci sono più poltrone a dondolo. […] La gente deve stare in piedi, deve correre tutto il santo giorno» (p. 76). Un mondo drogato di svaghi pieni di vuoto, in cui quasi tutti credono di essere felici, aiutati dalla circostanza che la lettura, la riflessione, il dialogo sono stati aboliti: «Non ci sono più verande. […] non si voleva la gente seduta sotto le sue verande […]. In quelle condizioni, la gente parlava troppo; aveva il tempo di pensare; e così s’è fatta la festa alle verande. […] Non ci sono più panchine, non ci sono più giardini, dove sedere a perdere il tempo» (pp. 75-76). Un mondo in cui «l’ultima università di studi umanistici era stata chiusa per mancanza di fondi» (p. 87). In questo mondo, in cui essere è nulla, qualcuno si ostina, sovversivamente, a nascondere libri in casa.

A rischio della vita. Perché in tale mondo i pompieri appiccano incendi per bruciare i non molti libri superstiti e, se necessario, i loro improduttivi proprietari, trasgressori dei costumi e delle leggi.

Ma Montag è un incendiario che, misteriosamente, conserva un barlume di coscienza, risvegliata dalla «fanciulla che sapeva conoscere le stagioni» (p. 168). A un certo punto lo sfiora il dubbio che il libro possa non essere un’entità demoniaca, che leggerlo possa quindi non essere un’azione moralmente e giuridicamente censurabile. Si «accor[ge] che dietro ogni libro c’è un uomo. Un uomo che ha dovuto pensar[e]. Un uomo a cui è occorso molto tempo per scriver[e]» (p. 61). Capisce di non aver mai capito nulla di veramente importante, e inizia a capire: «Ci dev’essere qualcosa di speciale nei libri, delle cose che non possiamo immaginare, per convincere una donna a restare in una casa che brucia. È evidente!» (p. 60).

La crisi di coscienza, giunta improvvisa, culmina rapidamente nell’osservazione che guiderà il resto dei suoi giorni: «A qualcuno è occorsa tutta una vita per mettere sulla carta una parte dei suoi pensieri, per guardarsi intorno e descrivere il mondo e la vita come li vedeva lui, e poi salto fuori io e in due minuti… bum! È tutto finito».

Invece, quasi tutti coloro che vivono intorno a Montag, a cominciare dai colleghi, «gli Happiness Boys, i militi della gioia» (p. 74), non conservano il minimo ricordo di quella vita in cui i libri aprivano orizzonti, in cui avere libri, e orizzonti, non era proibito. Così tra Montag e quasi tutti gli altri non può esserci dialogo. Il protagonista si tormenta e cerca di trasmettere un po’ del tormento alla moglie: «Lasciarti in pace! Non è difficile, ma come potrò io lasciare in pace me stesso? A noi occorre non essere lasciati in pace! Abbiamo bisogno d’essere veramente tormentati una volta ogni tanto! Da quanto tempo non c’è più nulla che ti tormenti? che ti tormenti sul serio, per qualcosa che conti realmente?» (pp. 61-62). Tutto inutile: per la moglie la donna «arsa viva» perché non voleva separarsi dai propri libri è… «acqua passata» (p. 60).

Al ricercatore che sfoglia il romanzo e rilegge i passi che aveva sottolineato, quando ancora aveva tempo persino di sottolineare, viene da pensare al valutatore seriale, all’esperto valutatore — gli dei non vogliano che ne circolino di inesperti, come qualche giudice amministrativo un po’ troppo pignolo va sentenziando —, poi all’incendiario di Bradbury, poi nuovamente al valutatore seriale: «A qualcuno è occorsa tutta una vita per mettere sulla carta una parte dei suoi pensieri, per guardarsi intorno e descrivere il mondo e la vita come li vedeva lui, e poi salto fuori io e in due minuti… bum! È tutto finito».

Il ricercatore pensa all’allegoria intorno a cui ruota tutto il romanzo: quella del pompiere che versa sui libri non acqua ma cherosene. Il ricercatore pensa e, tutto sommato, non gli sembra sostanzialmente diverso versare cherosene sui libri e separare, come suol dirsi, con l’accetta le riviste in non scientifiche e scientifiche, e le seconde, come non bastasse, in eccellenti e non. Operazione discutibile non solo quanto agli esiti, quali che siano, ma prima di tutto quanto al fondamento, al postulato — tale appare al valutatore seriale, più cartesiano di Cartesio — secondo cui la qualità della scatola sarebbe indice della qualità dei cioccolatini. Mentre anche i bimbi — valutatori meno cartesiani, più prudentemente postulanti — sanno che i cioccolatini fatti in casa sono spesso altrettanto buoni, se non migliori, di quelli sfornati industrialmente ma raffinatamente inscatolati, infiocchettati e pubblicizzati.

Al ricercatore non sembra sostanzialmente diverso versare cherosene sui libri e separare i ricercatori, con l’accetta statistica denominata mediana, in abili(tati) e inabili(tati), sulla base del tipo e del numero delle pubblicazioni, non del loro contenuto, della loro qualità, del loro valore, del loro significato. E pensare che il Novecento è stato il secolo dell’ermeneutica, della filosofia del significato: del testo e della vita! Chi avrebbe mai pensato che ci si sarebbe dimenticati così rapidamente di Hans-Georg Gadamer e di tutti gli altri! Che sarebbero state ‘scientificamente’ confuse misurazioni e valutazioni! Che si sarebbe divenuti volontariamente servi di una metonimia: il contenitore per il contenuto, appunto, vale a dire l’accidente per la sostanza!

Naturalmente la cultura della mediana tende a trascurare come statisticamente irrilevanti i ricercatori ‘sfortunati’, che hanno pubblicato in riviste valutate retroattivamente come non eccellenti. Come se l’eccellenza, le sue sedi, i suoi indicatori non si possano non conoscere da sempre. Come se le valutazioni, le esperte valutazioni si possano seriamente reputare «constative», anziché «performative»: anziché «illocutive» — dire l’eccellenza è crearla — e «perlocutive» — creata l’eccellenza, il ricercatore che non voglia essere marginalizzato non può non mirare all’eccellenza, stringendo sempre più, volente o nolente, il cappio che ne soffoca la libertà, consolidando sempre più il dispositivo che lo rende volontariamente servo —, dunque gravemente perturbative, a dir poco, della libertà di scegliere un tema d’indagine e un approccio a quel tema (sia Werner Heisenberg che John L. Austin sembrerebbero proprio passati invano).

Né al ricercatore sembra sostanzialmente diverso versare cherosene sui libri e separare con l’accetta i ricercatori, ai fini della distribuzione di cosiddetti incentivi, in attivi e inattivi, sulla base di criteri anche qui meramente quantitativi e anche qui definiti ex post. L’eterno valutando, di nuovo, non poteva non sapere. E invano protesta che l’ignoranza del diritto inconoscibile o difficilmente conoscibile scusa. Per il valutatore seriale non si è scusati nemmeno dall’ignoranza del diritto… inesistente.

Nel mondo accademico dell’era anvuriana al valutatore seriale quasi tutto appare assiomatico, cristallino, solare, mentre all’eterno valutando quasi tutto appare enigmatico, aleatorio, nebbioso.

Il valutatore seriale ha sempre sotto mano dei dati, completi o completabili, certi o certificabili. Ha sempre sotto mano una griglia onnicomprensiva, una mediana capace di separare senza esitazione i buoni dai cattivi, una classifica internazionalmente riconosciuta. Incasella la vita, qualunque aspetto della vita, con disinvoltura. Ha sempre sotto mano parametri, indici, indicatori, standard, grafici, di così palese scientificità che non prova imbarazzo ad applicarli retroattivamente, ad applicarli a condotte che ingenuamente, quei parametri non essendo stati ancora formulati, ne hanno seguiti altri, o magari non ne hanno seguito alcuno (quali parametri seguiva Paul Feyerabend se non i propri?).

L’eterno valutando era convinto che l’università fosse un luogo di pensiero libero, critico, originale, creativo, divergente, dissenziente, eterodosso. Gli pareva di ricordare che qualcosa in tal senso si leggesse nella Costituzione italiana, in quella Costituzione che, a furia di attendere di essere «attuata», sarebbe divenuta «inattuale».

Leggendo e ascoltando le acrobazie metodologiche del valutatore seriale, il quale vorrebbe far credere che contino solo gli aggregati e non anche i singoli, e tende a confondere leggiadramente intersoggettività e oggettività, l’eterno valutando non può non sentirsi perplesso, spaesato, «gettato». Per anni agisce in un certo modo, credendo di agire onestamente, persino meritevolmente. Poi, quando il valutatore seriale, un bel giorno, decide di valutarlo, l’eterno valutando scopre che avrebbe dovuto fare altro: pubblicare in altre riviste; occuparsi di argomenti citazionalmente redditizi; preoccuparsi non della qualità — che si valuta, non si misura —, ma dell’impatto; non del merito, inteso come contenuto, ma della risonanza; non del senso — che si discute e si condivide o meno, non si pesa e non si conta —, ma della diffusione. Scopre, in definitiva, che avrebbe dovuto preoccuparsi non che qualcuno lo leggesse, lo recensisse, lo criticasse — non è tra le mode di questa stagione —, ma che qualcuno — avendolo letto o meno —lo citasse (magari per denigrarlo: tutto fa brodo).

È ora di concludere. L’eterno valutando deve tornare al suo lavoro: produrre-per-farsi-valutare. Vorrebbe concludere citando dal secondo libro ricordato in epigrafe, che aveva letto quando aveva tempo per leggere, quando ancora il valutatore seriale (non lo si cita per non incrementarne gli indici citazionali) non aveva evocato nero su bianco — magari reputandosi in grado di fare una spiritosa caricatura — «la macchietta del professore di Lettere e Filosofia, saccente e petulante, avulso dalla realtà, refrattario alle tecnologie digitali, innamorato dell’odore di carta […]. Questo tipo di professore rifiuta di essere valutato. […] Costui condanna la propria disciplina all’aleatorietà dell’inutile, alla stregua di un passatempo raffinato che proprio non si capisce per quale ragione il denaro pubblico dovrebbe sostenere. Caparbi raccoglitori di farfalle [tali erano apparsi, per fare nomi a caso, Niccolò Copernico, Galileo Galilei, Charles Darwin, Sigmund Freud], inesausti giocatori di bridge, boriosi nella loro follia [sic!]». Insomma, argomenti da processo a Socrate, oppure — se si preferisce evitare di scomodare proprio il filosofo che non volle scrivere nulla (ma quanti grandi hanno scritto un solo libro, magari pubblicato postumo?) — da processo scientistico alla scienza. A proposito, chiede a Montag il capitano dei vigili del fuoco — ma sembra di leggere il valutatore seriale —: «Perché imparare altra cosa che non sia premere bottoni, girar manopole, abbassar leve, applicar dadi e viti?» (p. 66).

L’eterno valutando, che sa di dover chiudere quanto prima, rinuncia a far comprendere al valutatore seriale cosa siano i classici e perché ci si chiuda nel polveroso silenzio delle biblioteche per studiarli e tentare di reinterpretarli: se non ce l’ha fatta Calvino… Rinuncia anche a far comprendere che le scienze dello spirito, lavorando lo spirito con lo spirito, avendo lo spirito come materia prima, come metodo produttivo e come prodotto, non riusciranno mai, proprio mai a produrre «bottoni», «manopole», «leve», «dadi» e «viti». Rinuncia senz’altro: se non ci è riuscito Hegel…

Dice a Montag il professore di lettere mandato a spasso alla chiusura dell’ultima università di studi umanistici: «Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita». La «professione/vocazione» del ricercatore, infatti, sarebbe niente meno che quella di comprendere la vita, di educare a pensare autonomamente (nel senso etimologico di seguire proprie leggi), a pensare per valori morali, oltre e prima che per valori numerici. E la vita, checché ne dica il valutatore seriale — onnivalutante ma non autovalutante — non si lascia facilmente ‘grigliare’, classificare, gerarchizzare, standardizzare, sistematizzare, anvurizzare.

Conviene davvero chiudere: urge passare alla confezione del prossimo prodotto. Inaugurando l’anno accademico romano quasi centoventi anni fa, Antonio Labriola pronuncia queste parole: «Ricordiamo tutti la generale ilarità con la quale alcuni anni fa venne accolta una lettera ministeriale contenente un monito a un professore, di liceo del resto, colpevole di insegnare una filosofia, che sarebbe stata difforme dalla coscienza della maggioranza dei contribuenti!» (p. 30, secondo corsivo aggiunto).

Bene, ciò che nel 1896 si ricorda essere stato accolto qualche anno prima da «generale ilarità» è ormai divenuto realtà istituzionale: leggi, regolamenti, decreti, delibere, pareri, raccomandazioni, linee-guida, proclami, bandi, agenzie, commissioni, comitati, osservatori, nuclei, unità, gruppi, esperti valutatori, produttori e combinatori di indicatori, ideatori e manutentori di banche-dati citazionali, scale, classifiche, fasce, tetti, soglie, diagrammi i più fantasiosi e variopinti. Esperti, naturalmente, più esperti degli esperti, specialisti più specialisti degli specialisti, sapienti decretati dai potenti più sapienti dei sapienti.

Il Labriola del 1896 si rivela un pessimo profeta. Se ai suoi tempi la «lettera ministeriale» diffidante un professore a non «insegnare una filosofia […] difforme dalla coscienza della maggioranza dei contribuenti» può far ridere di cuore, oggi quella «lettera ministeriale» è non solo legge dello Stato, ma anche modo diffuso di concepire e vivere l’università. Oggi quella «lettera ministeriale» è il progetto, anzi, molto peggio, la mappa dell’università in cui lavoriamo, costretti a produrre senza avere più tempo da ‘perdere’ per studiare o per insegnare: marginalizzati i libri, le biblioteche, la lettura; bandita l’oralità non rendicontata, non registrata, non schedata.

Spesso in Italia non ci si accontenta di essere provinciali. Si cerca di esserlo in maniera creativa. Si preferisce quella forma raffinata di provincialismo che si potrebbe etichettare come esterofilo. Ciò che si fa all’estero, meglio se in inglese, è buono per definizione, comunque migliore della stessa cosa, esattamente la stessa, fatta in Italia. Come se si trattasse di ortaggi, si espiantano e trapiantano istituti e istituzioni, teorie e pratiche a prescindere da contesti, culture, ideali, ideologie, tradizioni, precomprensioni, precedenti, mentalità, storie e biografie.

Il problema principale non è che si emula al contrario, ossia facendo quello che fanno gli altri ma, spesso, decisamente peggio. Il problema principale è che, nonostante Montesquieu, si è ancora lontanissimi dal capire che la cultura non è un titolo di credito al portatore, non si espianta e trapianta come si trattasse, appunto, di ortaggi, i quali pure, a dire la verità, non sono coltivabili sotto qualunque cielo.

Occorrerebbe, certo, osservare ciò che si fa all’estero e tenerne seriamente conto. Ma occorrerebbe anche, altrettanto seriamente, tener conto dei propri orizzonti culturali, tradizionali, ideali, ideologici, intellettivi, emotivi, storici, giacché, come direbbe Gadamer, «Nessuno può disfarsi della propria ombra». E, tenendo conto dei propri orizzonti, occorrerebbe aprirsi, ovviamente per tentativi ed errori, un proprio sentiero, magari da proporre all’emulazione altrui. Insomma, si tratterebbe, qualche volta, di non seguire e inseguire, ma di progettare, magari anticipando altri, magari attuando la Costituzione (la propria!) in tema di libertà di scienza, magari dandosi, se non una prospettiva lunga, una prospettiva, possibilmente di educazione libera al pensiero libero, non di semplice scalata di classifiche di produttività.

Ma sarebbe molto, molto faticoso, richiederebbe tempo e discussione, discussione sui fini prima che sui mezzi. E, soprattutto, costringerebbe a fare i conti con la politica del giorno per giorno, del consenso facile, delle slide riassunte via tweet, del divide et impera, del tutti contro tutti: «non lavorano [assioma pseudodescrittivo], ergo [deduzioni prescrittive] definanziamoli, deretribuiamoli, destituiamoli [“perish”]».

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