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Il coraggio di insegnare la libertà

Michela Marzano

18/10/2020
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La Stampa

E adesso che faccio, con i miei studenti, quando arrivo al capitolo "libertà di espressione"? Dico loro che è un cardine delle nostre democrazie liberali, e che quindi non la si può né sopprimere né restringere – a meno che non ci si trovi di fronte all'incitamento all'odio, all'apologia dei crimini contro l'umanità o alla diffamazione – oppure taccio per non mettermi in pericolo? Come spiegare loro quello che è successo l'altro ieri a Conflans-Sainte-Honorine, il piccolo comune a Nord-Ovest di Parigi dove un insegnante è stato decapitato da un terrorista islamico per aver mostrato in classe alcune caricature di Maometto?

Il Presidente Macron, commentando a caldo questo macabro assassinio, ha detto che l'insegnante è stato ucciso «perché insegnava la libertà di credere e non credere».

E anche se al giorno d'oggi può sembrare assurdo che una persona, in Francia, possa morire in nome della libertà, è proprio questo che è accaduto, e continua ad accadere, da quando nel gennaio del 2015 sono stati barbaramente trucidati alcuni giornalisti della redazione di Charlie Hebdo. In questi ultimi anni, in Francia, c'è chi sta pagando con la vita il proprio attaccamento alla libertà. Che non è ovviamente la libertà di fare tutto o di dire qualunque cosa – visto che l'hate speech, per restare nell'ambito discorsivo, è giustamente sanzionato. Ma è la libertà di pensare con la propria testa, di scegliere in cosa credere, e di difendere le proprie idee e i propri valori senza che nessuno cerchi di impedircelo. E quindi? Cosa farò con i miei studenti? Avrò la forza e il coraggio di ribadire l'importanza di questa libertà nonostante le minacce islamiste?

Certo, la libertà di espressione finisce laddove il discorso non si limita più solo a dire, argomentare,

spiegare, illustrare, o al limite anche ironizzare, ma agisce e ferisce, accanendosi contro qualcuno per annientarlo o distruggerlo. Quando si insulta una persona perché omosessuale o trans o straniera o disabile, l'argomento della libertà non può più essere utilizzato. La performatività del linguaggio, in questi casi, ce lo vieta. Anche la tolleranza ha d'altronde i suoi limiti. Soprattutto quando si è confrontati alla violenza e all'intolleranza altrui – visto che tollerare l'intolleranza nel nome della tolleranza equivarrebbe di fatto a distruggere la libertà. Quando però si resta nell'ambito dell'espressione delle proprie opinioni e delle proprie idee, non c'è giustificazione che tenga per restringere la libertà. Chi pretende il contrario ha forse dimenticato cosa significa vivere in dittatura. Oppure forse non lo ha mai sperimentato. Ma allora dovrebbe andare a rileggere (o leggere) George Orwell, e fare lo sforzo di immaginare cosa può voler dire doversi esprimere sempre e solo nella "neolingua" di un regime totalitario, e non aver nemmeno più la possibilità di concepire un pensiero critico individuale. La tolleranza, scriveva Voltaire, è la capacità di sopportare anche ciò che si disapprova. È la possibilità di rimettersi in discussione, anche quando qualcuno deride ciò in cui noi crediamo, che si tratti delle caricature di Maometto o di quelle del Papa, di una battuta su nostra madre o di un'ironia sul nostro modo di concepire il mondo. Dietro la tolleranza, per dirla in altre parole, c'è sempre l'accettazione dell'alterità. Anche quando quest'alterità ci disturba, ci provoca, ci destabilizza.

E con i miei studenti, allora? Vado a leggermi di nuovo qualche passaggio del Trattato sulla tolleranza e di 1984. E dopo aver, per l'ennesima volta, gettato un occhio ai social e letto i commenti di chi, pur rammaricandosi per la macabra decapitazione dell'insegnante di Conflans-Sainte-Honorine, parla comunque di «provocazione» e invoca «limiti alla libertà di espressione», so perfettamente che, anche quest'anno, affronterò con i miei ragazzi e le mie ragazze il tema della libertà di espressione. Ci sono momenti in cui il coraggio non è una semplice opzione, ma una vera e propria necessità. —


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