FLC CGIL
Contratto Istruzione e ricerca, filo diretto

https://www.flcgil.it/@3765813

Ikea docet

www.casadellacultura.it Ikea docet intervista a Maurizio Ferraris Corsi universitari che preparano a "mestierucoli", tecnologia a buon mercato, subalternità nei confronti del mondo del lavoro...

18/03/2002
Decrease text size Increase text size

www.casadellacultura.it

Ikea docet
intervista a Maurizio Ferraris

Corsi universitari che preparano a "mestierucoli", tecnologia a buon mercato, subalternità nei confronti del mondo del lavoro, licealizzazione dell'università in assenza di scuole dell'eccellenza sul modello francese, disinteresse nei confronti della ricerca: ecco, secondo Maurizio Ferraris, alcuni dei guai della nostra università. Una situazione impostata dal governo dell'Ulivo ed ereditata dal Polo che vi aggiungerà "una spruzzata di aziendalismo autoritario e lo spirito di San Patrignano".

Parliamo un po' di questa "ossessione del mondo del lavoro" che tanti guai avrebbe causato alla Università italiana, in particolar modo alle facoltà umanistiche'

I guai non li ha provocati l'ossessione del mondo del lavoro, bensì il modo subalterno di rapportarsi a quel mondo. Nessuno si sogna un'università in cui i figli dei duchi leggono i classici per poi diventare governatori delle Indie, occidentali o orientali. Anche se - facciamoci caso - già a questo livello possiamo constatare che un rapporto col lavoro c'è, e molto vivo (fare il governatore non è affatto un cattivo lavoro, a meno che ti facciano esplodere come è successo a Lord Mountbatten), solo che, per l'appunto, non è impostato in maniera subalterna. Il modo in cui il lavoro è entrato nella neouniversità è tutto il contrario: si apprestano competenze generiche, e arretrate (come usare un computer, come navigare su internet, una infarinatura di idee ricevute) per formare la nuova classe subalterna, parcellizzata in lavori precari, che nel mondo postmoderno prende il posto dei vecchi operai, solo che adesso sono laureati, fanno gli/le stagisti/e, e possono essere licenziati quando si vuole. Il bello, l'ironia, è che questa situazione, dipinta come desiderabile, è stata impostata dal governo dell'Ulivo, e tranquillamente ereditata dal Polo.

Dietro a questo c'erano tante matrici culturali, molto prima che dei dati di fatto e di mercato. Il populismo cattolico e salesiano, tradizionalmente molto vivo nella sinistra, con il virulento anti-intellettualismo che comporta, si è ben saldato con il desiderio, sempre della sinistra, di laburismo moderno alla Blair. Da tutto questo è venuto fuori, piuttosto che un laburismo, un lavorismo, che ha consegnato l'università chiavi in mano al Polo, che ci aggiungerà una spruzzata di aziendalismo autoritario e di spirito di San Patrignano.
Così, il formarsi di una cultura elevata e laica ha subito una ulteriore battuta d'arresto. E ribadisco che la cosa viene da lontano, da lontanissimo, e ha molto a che fare proprio con la necessità, comune sia alla destra sia alla sinistra, di contendersi il voto cattolico, il quale è, per dir così, geneticamente avverso alla cultura, tanto più avverso quanto più la cultura è alta, e promette di pensare con la propria testa. A farla breve, si ha torto a insistere tanto sul carattere sessuale della tentazione biblica del serpente: il serpente prometteva ad Adamo il sapere, questo lo avevano visto molto bene gli Illuministi, ma nel frattempo ce ne siamo dimenticati.

Possiamo indicare una data e un momento in cui questo fenomeno ha avuto inizio, o almeno in cui ha iniziato a manifestarsi in maniera preoccupante e ad essere percepito come tale?

Da quello che ho detto, risalendo un po' iperbolicamente alla Genesi, la storia è lunga e lontana. Ha a che fare con la tradizionale debolezza delle strutture di ricerca in Italia, dove, per trovare una scuola di eccellenza, dobbiamo tornare alla Normale di Pisa, fondata, guarda un po', da Napoleone. Il fenomeno è diventato sempre più evidente quanto più l'università si è estesa e massificata. Saper rispondere adeguatamente a questo fenomeno, rispondendo all'esigenza della formazione di una coscienza e di una cultura condivisa, sarebbe stata una bella cosa, ma si è preferito puntare su internet e sul postmoderno.

Questa trasformazione non è anche un tentativo di rispondere ad esigenze reali degli studenti?

Secondo me, risponde prima di tutto alle esigenze dei professori, come hanno dimostrato le valanghe di concorsi che hanno accompagnato l'attuazione della riforma, e che ne costituiscono forse il vero obiettivo.

Eppure la strada sembra essere ormai segnata se anche nelle scuole superiori la tendenza è quella di creare diplomi iperspecialistici, a gittata corta, per "mestieruoli" anche, ovviamente, in conformità con la riforma Moratti.

Insisto: la Moratti si è trovata tutto pronto e preparato. Mi permetta un paragone storico, finché si può: il 29 maggio 1453, Maometto II decise di sferrare l'attacco finale a Costantinopoli, e tre giorni dopo l'impero romano d'oriente non esisteva più. Una passeggiata, preparata da lontano non dai Turchi, ma dai Cristiani, che avevano pensato bene, due secoli e mezzo prima, di depredare l'impero e di spartirselo. Non so quanto potrà piacere al Ministro Moratti di essere paragonata al Gran Turco, dopo quello che il suo Presidente del Consiglio ha detto della superiorità cristiana, ma l'analogia mi pare del tutto corretta.

La sua denuncia coinvolge tutto il mondo del sapere e i suoi attori. Un imbarbarimento che rischia di portarci a livello "animalesco", togliendoci ciò che dall'animale ci distingue cioè la gratuità della conoscenza, la possibilità di un sapere senza fine.

Non voglio fare il catastrofista e il libro è pieno di iperboli. I barbari e i bruti ci sono sempre stati, solo si vergognavano, e magari avevano un atteggiamento di ipocrita ammirazione verso la cultura (l'ipocrisia, il pegno che il vizio paga alla virtù). Ma nel momento che il bruto scopre di essere espressione di un sentire comune (e non è difficile, basta guardare la tivù), allora non ha alcun bisogno di nascondersi. Se poi la stessa università decide di studiare i serial televisivi, magari con l'aria di chi "osserva" e "si documenta" (io personalmente non ci ho mai creduto, se uno studia le soap opera è perché gli piacciono), allora il gioco è fatto.

Nel capitolo "La corazzata Potemkin è una cagata" lei parla della contraddizione che vive il mondo della cultura per cui da una parte si venerano le ceneri dei "padri" e dall'altra si percepisce un sincero odio per la cultura, l'elaborazione esagerata dell'insofferenza che alcuni professori provavano, da studenti, nei confronti di chi hanno poi sostituito. Allora, la responsabilità è principalmente dei professori universitari?

Sì, di chi vuole che sia, degli studenti? Dei ministri? Perché una riforma passi, ci vuole tanta complicità, anche se poi può tornare comodo dire che ci si trovava in uno stato di urgenza, che si eseguivano gli ordini ecc. ecc.

Mi sembra di capire che l'accusa che lei muove è che l'Università cerca di assecondare esigenze di rinnovamento, tenta di rispondere a un presunto o reale fermento sociale, anche di linguaggio, ma lo fa perdendo completamente di vista le sue finalità, oppure lo fa semplicemente per spirito di sopravvivenza, e garantirsi, con corsi tagliati ad hoc (scienze della comunicazione, dams), un afflusso di studenti decente e sufficiente...

Le due cose non si escludono. Facciamoci caso: nel Sessantotto i peggiori chiedevano il 30 politico, i baroni glielo negavano ed erano contestati, i neobaroni glielo hanno dato e son finiti in cattedra. In fondo, era la risposta sia a una esigenza degli studenti, sia a una esigenza dei professori. Restava l'imbarazzo per una iniziativa non istituzionalizzata (io a questi do 30, ma meriterebbero 18); se però si fanno dei corsi facilissimi, allora si dà 30, e con la coscienza a posto.

Quello che teme è la licealizzazione dell'università, quella che ha già visto in opera in Francia. Non è inevitabile?

Sì, è inevitabile. Ed è dunque stato giusto e inevitabile fare la riforma. Solo che non c'era bisogno di fare un liceone con le caratteristiche di un liceino, cioè molto inferiore ai licei di una volta, in cui i professori erano tipi seri e colti, pronti a dire agli studenti tonti che i loro temi erano, poniamo, pieni di "luoghi comuni e banalità". Se la immagina una scena del genere nella nostra neouniversità? Impensabile. Al solito, il modello sembra essere quello del corso di recupero, il liceo privato o il convitto religioso che promette prodigiosi recuperi, che so, la maturità in un anno e continuando a lavorare. Dunque, se può essere inevitabile fare un liceo (e personalmente non ho dubbi in proposito), se ne poteva almeno fare uno buono. E soprattutto conveniva non dimenticare che, dopo il liceo, per chi vuole, c'è l'università, di cui stiamo per perdere le tracce: i requisiti per la costituzione di un biennio specialistico sono tali che se ne apriranno pochissimi, i fondi per la ricerca si tagliano a tutto spiano. Così, se in Francia c'è il liceone o il liceaccio, ma c'è anche il sistema delle Grandes Ecoles e un budget per la ricerca doppio rispetto al nostro, in Italia ci teniamo il liceino e basta.

Che cosa all'interno del sistema università deve essere cambiato?

Due cose, o meglio tre ma per la terza è tardi.
Primo: la didattica. La si è resa più facile e disordinata, più casual, insomma, ma questo è in netta contraddizione con la licealizzazione, che richiede invece programmi chiari, elementari e coordinati all'interno di un corso di laurea.
Secondo: la ricerca. Si è semplicemente deciso di azzerarla, quando viceversa sarebbe stato vitale (e non costoso) potenziarla, visto che una buona didattica è il naturale riflesso di una buona ricerca.
Terzo: il reclutamento dei professori. Il sistema transitorio per cui una commissione di cinque dà un posto e due idoneità, che ha caratterizzato i concorsi dal 1999 al 2001, era fatto apposta per prefigurare una maggioranza di tre remunerata, per l'appunto, con un posto e due idoneità. Donde la valanga di concorsi che ha bloccato gli accessi sino alla fine dei tempi. Ora il male è fatto.

In una precedente intervista pubblicata su queste pagine, Raffaele Simone ci diceva che tra scuola e studenti non c'è nessuna comunicazione, che sono mondi paralleli con estemporanei e veloci contatti e che la gran parte del "sapere" circola oggi fuori dalla scuola. L'idea era però che la scuola dovesse fare un grosso sforzo per andare incontro, anche dal punto di vista del linguaggio, ai giovani. È d'accordo?

Sì e no. Voglio dire: non sarebbe male che i giovani, con tutti i neuroni e le sinapsi a posto, facessero qualche sforzo per capire il linguaggio dei professori; una volta questo si chiamava "cultura", non le pare? Detto questo, se i professori sono un po' scemi, e può succedere, allora non vale la pena di adeguarsi, ma è sempre successo, chi non ricorda un cattivo professore di liceo o di università? E poi, ci sono pur sempre i libri, che per me, al tempo della mia università, alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, sono stati molto più importanti dei professori: ho letto migliaia e migliaia di pagine, e i miei compagni facevano lo stesso. Nulla vieta che si continui a farlo, le pare? E anzi, mi sembra che in tantissimi lo facciano, anche perché quello che circola fuori dell'università è qualcosa di molto eterogeneo, dalla ricerca più sofisticata al Grande Fratello, tanto è vero che lei stessa mette tra virgolette la parola "sapere", il che, mi pare, significa qualcosa.


La nostra rivista online

Servizi e comunicazioni

Seguici su facebook
Rivista mensile Edizioni Conoscenza
Rivista Articolo 33

I più letti

Filo diretto sul contratto
Filo diretto rinnovo contratto di lavoro
Ora e sempre esperienza!
Servizi assicurativi per iscritti e RSU
Servizi assicurativi iscritti FLC CGIL