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I test Invalsi alla prova dell'equità

Con i test, si trova lo strumento tecnico per travestire da “merito” o “demerito” ciò che è in realtà il frutto di diseguaglianze socioculturali

26/05/2011
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Marco Magni

Se, per ipotesi, i test Invalsi potessero fungere da semplice strumento di misurazione delle prestazioni del sistema di istruzione italiano, pietra di paragone omogenea per tutte le classi e le scuole, probabilmente dimostrerebbero da soli la loro sostanziale inutilità. Le ricerche condotte in Francia, sui risultati dell’esame nazionale di accesso alla sesta classe (il nostro primo superiore), da Sylvain Broccolichi dimostrano la sostanziale aderenza dei risultati dei test standardizzati nei confronti delle caratteristiche sociali dell’utenza scolastica. I buoni risultati si riscontrano nei licei del centro di Parigi, i peggiori nelle banlieues. La varianza dei punteggi rispecchia l’origine socioculturale degli allievi: “Si ritrova dappertutto la stessa struttura delle diseguaglianze di riuscita scolastica secondo l’origine sociale, e più precisamente secondo il capitale scolastico familiare, come attestano in particolare i risultati dei figli degli insegnanti paragonati a quelli delle categorie “imprenditori” e “professioni intermedie” (S. Broccolichi, L’espace des inegalités scolaires, in Actes de la recherche en sciences sociales, n. 180, dic. 2009, p. 85). A conclusioni simili era giunto nel 2008 Pasqualino Montanaro, ricercatore del centro studi della Banca d’Italia, analizzando i differenziali dei risultati dei test PISA tra Nord e Sud d’Italia. Infine Diane Ravitch, la storica dell’educazione statunitense (già viceministro nell’amministrazione Bush), che guida negli Stati Uniti la contestazione del “teach to testing” e delle riforme scolastiche sostenute dalle corporation oltreché da un’ampio schieramento bipartisan repubblicano-democratico, contro l’uso dei test per una politica salariale meritocratico-punitiva nei confronti degli insegnanti, ci racconta una storia esemplare: quella del distretto 2 di New York City, in cui già dalla fine degli anni ’80 gli amministratori scolastici intrapresero una campagna per l’incremento del rendimento scolastico, imperniata sull’accoppiata dell’introduzione forzosa di nuove metodologie didattiche e sull’implementazione, all’interno del corpo insegnante, di una cultura competitiva del miglioramento delle performance. Effettivamente, questa campagna fu coronata da successo, visto l’incremento visibile dei punteggi medi dei test degli studenti del distretto 2. Tuttavia, tale risultato era da imputare alla “gentrificazione” del distretto 2 avvenuta nella prima metà degli anni ’90: aumento del valore dei valori immobiliari, crescita della popolazione appartenente alla borghesia bianca e asiatica e decremento della percentuale di studenti afroamericani e ispanici di bassa estrazione sociale.
E’del tutto assente, nelle discussioni odierne sui test Invalsi, la questione dell’opera di falsificazione implicita nella loro premessa di base. Essi si presentano come indice del livello di qualità delle scuole, quindi dell’efficacia della pratica manageriale dei capi di istituto e delle capacità didattiche degli insegnanti. Ma ci presentano differenze di rendimento scolastico che, in realtà, sono da imputare alle differenze tra caratteristiche sociali degli istituti ed alle differenze di composizione sociale delle diverse aree geografiche e dei diversi indirizzi di studio. Effettivamente, gli estensori del rapporto sui test PISA tengono conto dei fattori sociali nella determinazione dei differenziali di rendimento nei test. Affermano che, mediamente a livello europeo, il 17% della varianza dei risultati è da imputare alle differenze socioculturali degli studenti. Tuttavia, il metodo da loro utilizzato, l’analisi multivariata, conduce a sottostimare l’impatto dell’origine sociale sui risultati scolastici: infatti, isola l’origine sociale degli allievi da altre variabili, considerate indipendenti, che in realtà sono l’espressione mascherata dell’origine sociale stessa. I sociologi dell’educazione sanno benissimo che, dal momento in cui il pubblico di origine popolare è sottoposto ad un’opera di superselezione rispetto al sottoselezionato pubblico scolastico delle classi medie e superiori, al momento della somministrazione dei test esso sarà rappresentato dai suoi membri scolasticamente migliori. In altri termini, ai livelli più alti di istruzione, le componenti scolastiche tendono ad incorporare la componente dell’origine sociale, fino a renderla quasi invisibile (cfr. P. Bourdieu, R. Passeron, La reproduction; M. Duru-Bellat, Les inegalités sociales à l’école).

   L’ideologica meritocratica alla base della campagna per la generalizzazione dei test Invalsi, oltre che della prefigurazione di usi a venire degli stessi per la retribuzione differenziale e la gerarchizzazione del corpo insegnante, per la compilazione di classifiche di qualità delle scuole, per la imposizione di standard di valutazione nazionali agli esami di stato ecc., falsifica la realtà della struttura sociale della scuola. Con i test, essa trova lo strumento tecnico per travestire da “merito” o “demerito” ciò che è in realtà il frutto di diseguaglianze socioculturali.
    Le ragioni del recente boicottaggio dei test Invalsi non hanno direttamente a che vedere con il nodo in questione. Sappiamo benissimo che sono il frutto della sana reazione della categoria degli insegnanti, colpita dai licenziamenti di massa e con un contratto nazionale di lavoro bloccato per legge, contro la prefigurazione di una carriera legata a risultati dei test di valutazione nazionale oltreché ai giudizi discrezionali dei capi d’istituto. E’ un no alla politica del “divide et impera” che costituisce la sostanza dell’idea delle retribuzioni legate al merito.
   Ma, tornando alla domanda iniziale, dobbiamo domandarci se sia possibile un uso “neutro”, “obiettivo” e non “invasivo” dei test Invalsi. Come è stato rilevato anche in autorevoli sedi internazionali, l’uso dei test o prove strutturate assume un ruolo diverso se essi sono effettuati per rilevare i livelli del sistema scolastico, oppure se riguardano la valutazione individuale in esami di stato, oppure a maggior ragione, se ai loro risultati sono legati incentivi e castighi di qualche tipo per il personale docente. In questi ultimi casi, i test faranno scattare la “legge di Campbell”, secondo la quale ogni misura quantitativa utilizzata per valutare dei comportamenti sociali modificherà necessariamente questi comportamenti stessi: il “teaching to test” o, peggio, l’imbroglio vero e proprio, del quale esistono numerose attestazioni concrete (ad es. negli Usa e in Giappone).
   I test, allora potrebbero servire per migliorare le informazioni disponibili, non solo ai dirigenti e agli insegnanti, ma anche per le famiglie, che in questo modo sarebbero in grado di effettuare con maggiore consapevolezza la scelta della scuola per i propri figli? I casi di Francia e Inghilterra, ancora una volta, dimostrano che in tale situazione il ruolo svolto dai test è tutt’altro che neutrale. Infatti, la compilazione di palmarés o classifiche delle scuole non fa altro che rinforzare la posizione di mercato delle scuole di miglior rendimento, con una composizione socialmente orientata verso l’alto, attirando verso di esse le famiglie dotate di maggior reddito e di maggiore capitale culturale, e indebolendo al contrario la posizione delle scuole in difficoltà, anzi assegnando ad esse uno stigma che ne determinerà l’emarginazione sul mercato scolastico. La pubblicazione delle classifiche delle scuole ha accentuato la concorrenza tra gli istituti scolastici in Inghilterra ed accresciuto la domanda delle deroghe alla carte scolaire (che sancisce l’obbligo di frequentare le scuole pubbliche del proprio territorio) in Francia. In questo senso, la pubblicazione delle classifiche delle scuole diventa un comodo strumento per imputare i fallimenti agli insegnanti ed alle équipes scolastiche locali, esonerando dalle responsabilità le politiche scolastiche adottate dai governi.
    In conclusione, il giudizio sull’impatto dei test Invalsi non può fondarsi semplicemente sul giudizio di valore attribuito allo “strumento” test. Stabilire se esso sia un buono o cattivo strumento per determinare il livello di rendimento, se produca migliori informazioni oppure riduca la didattica ad una serie di quiz non è sufficiente per comprendere il ruolo svolto dai test nel modificare la realtà della scuola. Il senso dei test va compreso a partire dalla loro collocazione nei contesti determinati, politici, sociali, economici, della loro utilizzazione. Da questo punto di vista, l’ambito della loro comprensione è senza dubbio il processo di intensificazione dello sviluppo di un “mercato scolastico”, animato dalla concorrenza tra gli istituti (per accaparrarsi gli alunni migliori) e delle famiglie (per conquistare le posizioni che promettono un meggior rendimento degli investimenti scolastici). I test Invalsi, da questo punto di vista, promettono maggiore equità?  


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