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Giannini: Voglio una scuola libera all'olandese

Concorsi biennali. Fine degli organici di diritto. Valutazione. Autonomia. Parità. Costi standard.«Se Renzi ci sta, la pubblica istruzione mette le ali».

03/07/2014
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Luigi Amicone - da TEMPI

INCONTRIAMO STEFANIA GIANNINI, ministro dell'Istruzione, in una Roma subtropicale di sole che si avvicenda agli scrosci d'acqua a catinelle. Sarà il monsone, sarà che le vestigia della dinastia Flavia sembrano più recenti dell'urbanizzazione recente, la città capitolina nell'anno 14 del secondo millennio sembra racchiusa in un aforisma di Kafka. «Le carte della burocrazia sono le catene dei popoli». Varchiamo la soglia del ministero da cui dipendono qualcosa come un milione di addetti statali. E non c'è niente che rammenti una possibile via di fuga dalle catene se non un lesto e impeccabile portavoce del ministro (il manager giramondo Alessandro Leto, «ma la famiglia non la porto in Italia, per adesso sta a Ginevra, vedremo come andrà questa avventura»), lo stesso tonico e allegro ministro, la sua silenziosa équipe. «Tra la fine di luglio e gli inizi di agosto annunceremo con il presidente del consiglio i provvedimenti che insieme a quelli sulle infrastrutture completeranno l'agenda di riforme dei primi mille giorni di governo Renzi», ci prospetta subito il ministro. Tu vieni dalla notizia del suicidio di una ragazzina che si è buttata giù dal tetto di una scuola a Forlì e capisci che per quanto abbiano affidato ai sacerdoti delle procure di "fare giustizia", la somma iniuria è proprio che non si riesca a fare un passo oltre l'obitorio giudiziario. Altro vestibolo della morgue? «L'accanimento terapeutico così lo definisce Giannini con cui, in ambito scolastico e universitario, si è insistito e riformato sul piano procedurale.

Gli ultimi quindici anni di storia del sistema educativo italiano è stato fatto sulle procedure». Riflettiamo: «Abbiamo avuto quattro diverse forme di reclutamento del corpo docente e l'interruzione del flusso di reclutamento medesimo. Risultato, dati Ocse di settimana scorsa, l'Italia è il paese con gli insegnanti più anziani, età media 48,9 anni e 50 per cento oltre i 50». La scuola più vecchia del mondo Più in dettaglio l'anagrafica della scuola italiana è la seguente: detiene il primato della classe insegnante più vecchia (6 anni in più rispetto alla media Ocse) ed è rappresentata per il 79 per cento da donne. Il 39,2 per cento dei prof di scuola primaria e secondaria ha tra i 50 e 59 anni, 1'11,1 60. Sotto i 40 anni sono solo il 16,7 per cento e under 30 appena 11. Le ragioni di questo nostro sistema che si regge sulle generazioni dai capelli imbiancati? Lenin una volta disse: «Date a un capitalista abbastanza corda e si impiccherà da solo». È quello che ha fatto lo Stato con il '68. Da quella corda data ai profeti della "scuola di massa", unica, centralizzata, uguale per tutti, inquadrata nell'ideologia del funzionariato democrat, un esercito di insegnanti, non docenti, bidelli, figure da stato assistenziale (in cambio di un voto ai partiti assistenziali e di una tessera sindacale) è andato a ingrossare le fila del precariato. E così, una marea di azzeccagarbugli, leggi, regolamenti, conflitti giuridici, corsi e controricorsi, piazze in subbuglio, hanno infine prodotto muffa burocratica e infinita "guerra tra poveri". Oltre che, ovviamente, l'annientamento di ogni possibilità di liberare risorse per investimenti nell'istruzione.

Se oltre il 90 per cento della spesa pubblica per la scuola finisce nei (miserabili) stipendi degli insegnanti e nei sussidi all'esercito dei precari, cosa vuoi cambiare in un comparto che da cinquant'anni funziona come "posto fisso statale", surclassa nei costi la scuola paritaria che svolge lo stesso identico servizio pubblico di quella statale (ma costa mediamente allo Stato 500 euro ad alunno, contro i 7.319 euro che invece spende per ogni allievo di scuola statale) e ha il "vantaggio" di tenere unita per tutto il Regno una certa fissità ideologica e, soprattutto, assicura un certo gigantesco serbatoio di voti? Al via i concorsi biennali La categoria dei cosiddetti precari storici, quelli delle graduatorie a esaurimento, consta di circa 170 mila unità. «Saranno riassorbiti in dieci anni», aveva anticipato Giannini nella sua prima audizione in Senato. Come? Nei concorsi a cadenza biennale, annuncia il ministro, «a partire dal 2015, mentre già quest'anno mandiamo i test preselettivi dei Tirocini formativi attivi» (Taf, porta di ingresso all'insegnamento). Ma che tra questa "rivoluzione del reclutamento" e una cattedra di insegnante ci sia di mezzo il mare lo dicono i numeri. Per 147 mila candidati al concorso 2015 i posti a disposizione saranno solo 22.748. Gli aspiranti a una cattedra sono per lo più donne (70 per cento) di età media 33,6 anni. Ma per i primi otto anni la metà delle cattedre disponibili andranno ai precari storici, mediamente quarantenni e over. Insomma, non si intravvede la fuoriuscita da un sistema ingessato. Voi del "fenomeno" Renzi ci credete ancora alla luce infondo al tunnel? «Per intanto cerchiamo di dare un taglio netto all'impostazione che ha inchiodato il nostro modello educativo a una prassi quasi esclusivamente procedurale e proviamo a rispondere non alla domanda di quali nuove leggi ha bisogno la scuola, ma per quale scuola e per quale società vogliamo lavorare. E allora il disegno che stiamo pian piano cercando di comporre non agisce sulle procedure, ma agisce sulla visione». Concretamente? «Primo pilastro: la valutazione necessaria. Se tu non riesci ad avere una misurazione quantitativa e una valutazione qualitativa del processo educativo, non sei poi in grado di verificare quali sono i punti di forza e quali di debolezza del sistema, statale o non statale che sia. Ci sono regioni come la Lombardia che hanno un sistema educativo avanzato anche sotto questo profilo e aree del paese in cui non è mai successo niente di tutto questo. Si è lavorato molto bene sull'introduzione del sistema Invalsi che, a dispetto del nome che scatena allergie, ha una sua nobiltà di intenti perché va a diagnosticare e misurare le competenze molto specifiche di due punti basilari: matematica e comprensione linguistica testuale. Ma Invalsi da solo non è strumento sufficiente, devi collegarlo e siamo al secondo pilastro a una gestione autonoma e responsabile delle scuole».

Interrompiamo il ministro e domandiamo se per "autonomia" intenda finalmente qualcosa di più della libertà di gestire carte. Per esempio: parliamo di autonomia nei termini auspicati dalle berlusconiane Gelmini e Centemero ma anche dal postcomunista Berlinguer e dal responsabile scuola del Pd Faraone, ovvero, per dirla con un tweet della deputata renziana doc Simona Malpezzi, «Scuola: diamo una reale autonomia finanziaria e progettuale agli istituti»? I "pilastri" di una rivoluzione Risposta del ministro: «Non voglio e non posso anticipare le conclusioni tecniche e operative del provvedimento istruzione che annuncerà il presidente del Consiglio alla fine dei necessari approfondimenti che esige questo nostro dibattito. Ma l'autonomia gestionale esiste già perché già c'è una legge sull'autonomia delle scuole. Però se poi tu non dai al dirigente scolastico e a cascata ai suoi docenti gli strumenti e i metodi per esercitarla, l'autonomia rimane un nobile principio un po' come la legge Berlinguer sulle scuole paritarie. La parità ce l'abbiamo, no? Di che dobbiamo lamentarci? Già, ma se poi non c'è ossigeno, non ci sono le risorse per attuarla concretamente, la parità non significa niente. Dunque, personalmente mi aspetto un provvedimento che realizzi una autonomia reale. Che non significa arbitrio di gestione: significa che tu hai un budget. Chiaro che per fare questo occorrono risorse adeguate». Dunque, valutazione, autonomia, responsabilità. «E verifica delle politiche di gestione. Perché se dai autonomia al dirigente scolastico devi poi essere in grado di premiare o di ritirare risorse». Altro? «Sì, vogliamo superare subito quell'altra camicia di forza tipicamente italiana che sono i cosiddetti organici di diritto. Si tratta sostanzialmente di un organico programmato sulla base del numero degli studenti e che viene assegnato da Roma in maniera rigida alle singole Regioni, poi da lì alle singole circoscrizioni provinciali. Vogliamo trasformare questo organico di diritto in organico tecnicamente chiamato "funzionale", cioè modellato sulla realtà». Cosa significa? «Significa avere i docenti secondo il bisogno, ovvero completare gli organici là dove c'è necessità di completarli e alleggerirli là dove questa necessità non c'è. Le assicuro che questa è una rivoluzione attesa da molti anni dal mondo della scuola». Scusi, l'altra rivoluzione attesa è il rispetto da parte dello Stato italiano delle proprie leggi. La legge Berlinguer 62 dell'anno 2000 sostiene che il sistema della scuola pubblica italiana è un tronco a due rami, la scuola statale e la scuola non statale paritaria. D'altra parte siamo il fanalino del mondo libero. Nel 1950 le scuole non statali in Italia rappresentavano il 27 per cento del nostro sistema di istruzione. Oggi sono più che dimezzate e rappresentano solo il 12 per cento. Una tendenza completamente opposta a quella di tutti gli altri paesi Ocse. In Olanda, per esempio, le scuole non statali finanziate dallo Stato perché riconosciute come parte del sistema pubblico di istruzione sono addirittura il 71 per cento del totale. Cosa aspetta l'Italia ad allinearsi all'Europa, stabilendo parità di trattamento economico per tutte le scuole, ad esempio mediante la definizione di un "costo standard" per studente? Cos'altro occorre per buttare giù l'assurdo Muro di Berlino che resiste solo in Italia? Un corso di perestroika tenuto da Gorbaciov per spiegare (anche a qualche genio della Fondazione Agnelli) che la Guerra Fredda è finita, sono finite le ideologie, viviamo in una società aperta e plurale, "parità scolastica" non significa "privilegi", non è "sottrarre risorse alla scuola pubblica", ma è esattamente il contrario? C'è bisogno di un master ad Harvard per capire che "pubblico" secondo la legge Berlinguer e secondo tutte le leggi del mondo libero non è sinonimo di "statale"? Ministro, il governo Renzi riuscirà ad abbattere questo muro? «Guardi la mia sensazione è la seguente: premesso che ? ?i tempi sembrano maturi perché questo possa avvenire e dico "maturi" perché c'è un indirizzo garbatamente rivoluzionario in questo governo mi parrebbe curioso che nell'ambito della scuola questa coraggiosa azione di riforma strutturale non avvenisse. Però le dico "sì", se e solo se: primo, si riesce a fare per la scuola quello che si è fatto col decreto Poletti sul lavoro, cioé ci si libera di alcuni pregiudizi culturali. Perché la confusione da lei citata tra pubblico, privato e, vado avanti absit iniuria verbis, pubblico-privato-cattolico-clericale, perché questa è la filiera semantica, è frutto di una struttura pregiudiziale del dibattito italiano sino ad oggi. Questo è un dato oggettivo. Pensi alla discussione veramente fuorviante che abbiamo avuto lo scorso anno a proposito del referendum sulle scuole paritarie a Bologna. Mi stupì che anche persone di alto livello culturale sostenessero allora proprio ciò che ha censurato lei, e cioè che pubblico è sinonimo di statale. Questo no. Questo non è così. Ma non è così oggettivamente. Tu devi distinguere tra servizio e gestione che più attori debbono e possono svolgere, e finalità e obbiettivi che nel campo dell'istruzione si riassumono in un'educazione di qualità ispirata a modelli plurali. Perché è questo ciò che una società avanzata deve fare. Voglio dire, lo facevano i classici greci! Sarebbe singolare che in età postmoderna si ritornasse a qualcosa che è addirittura precedente alla classicità. Dunque, per prima cosa occorre che ci si liberi da questi pregiudizi e credo che ci siano delle buone condizioni perché ciò possa avvenire». Esemplifichiamo. «La prima condizione è che la parità scolastica non sia più un tema di parte e, per dirla brutalmente, il tema di una certa sinistra che è contro il paritario perché diventa privato, perché diventa cattolico e perché diventa clericale. Ma è e dev'essere un tema condiviso alla luce di uno schema europeo e di un principio di libertà di scelta educativa che è principio inoppugnabile, qualunque sia la politica alla quale si appartenga». Una scuola alla Robben Altre condizioni? «Sì, il governo può abbattere quel muro, se e solo se ci saranno risorse aggiuntive per questo capitolo». Oddio. Ma per recuperare risorse non basterebbe introdurre il "costo standard"? Lo state facendo con la riforma della Pa. Ma le sembra possibile che nelle condizioni attuali di già ampio disagio strutturale, quando il governo valuta a tre miliardi il costo di interventi sul solo versante dell'edilizia scolastica, si registri l'incredibile divario tra statale e non statale, per cui il costo medio di ogni studente statale supera i 7 mila euro anno, così, di default, sia lo studente scolarizzato a Scampia o lo sia a Bolzano; sia che frequenti un istituto statale sgarrupato come quello dei famosi alunni del Marcello d'Orta o l'aristocratico liceo classico statale Berchet di Milano? È difficile trovare scuole paritarie (e perfino scuole private di eccellenza) con rette superiori ai 7 mila euro... Non pensa che la definizione di un "costo standard" per studente consentirebbe di risparmiare e reperire risorse adeguate da ripartire equamente tra scuole statali e scuole non statali che svolgono lo stesso identico servizio pubblico? «Ci stavo arrivando. Infatti la terza condizione è l'applicazione del "costo standard". Ergo, la dimostrazione che se per assurdo le due condizioni dette sopra non si realizzassero, magari non sotto il governo Renzi ma tra cinque-sei anni, il sistema delle paritarie si spegnerebbe. Ma se si spengono le paritarie, saranno 6 miliardi e spiccioli in più che graveranno sul bilancio del già oneroso bilancio dello Stato. Dunque, al di là delle considerazioni culturali e di principio fatte sopra, mettiamoci pure la benda della cecità politica: a noi Stato italiano cosa conviene? Alla fine ci conviene parità e costo standard». Esatto. Infatti il simpatico conto della serva fatto da uno studioso della Fondazione Agnelli in un articolo per il Corriere della Sera ha due limiti evidenti: primo, che non siamo più all'epoca per cui tu fai l'accordo col Pcus e via tutti a produrre Fiat a Togliattigrad. Fuor di metafora: in base a quale principio europeo vuoi obbligare gli studenti delle paritarie ad andare a prendere un posto a tavola nelle statali? Secondo limite: vuoi far risparmiare lo Stato ma non gli chiedi di fare economia di scala sulla base del sistema che costa di più, ma su quello che costa di meno. Dunque, il ragionamento della Fondazione Agnelli andrebbe rovesciato. O meglio, andrebbe applicato fino alle sue ultime conseguenze: abolizione della scuola di Stato e libera concorrenza di scuole non statali. In questo modo avrai la sicurezza matematica che la concorrenza abbatterà i costi dell'istruzione (d'altronde, cari Agnelli, ma se nel mondo libero le scuole non statali sono in crescita esponenziale una ragione ci sarà e non sarà certamente di natura confessionale, ma squisitamente culturale, economica e di efficienza). Dunque, allo Stato italiano conviene passare da un sistema scolastico che non esiste più neanche a Togliattigrad a un sistema alla olandese che produce i Robben così noi tifosi speriamo dopo l'eliminazione dei nostri campioni del mondo. ¦


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