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Fondi scarsi e pochi ricercatori Il record italiano che umilia gli scienziati

L'appello: portare i finanziamenti all'1,9 del Pil. Usa al 2,8, area Ocse al 2,38

20/01/2013
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Corriere della sera

Mettiamo il caso che Harvard fosse in Italia... «Magari!», direte voi. Mettiamo comunque che fosse in Italia: avrebbe senso fissare un tetto massimo ai suoi progetti di ricerca per dare soldi anche agli atenei di Baroniate o Villaclientela? È quanto chiede una dura petizione firmata da 2.067 docenti e ricercatori. Affiancati da un secondo documento firmato dai presidenti dei maggiori istituti scientifici che sferza tutti i politici: si impegnino a dare alla ricerca almeno l'1,91% del Pil. Cioè quanto la media europea tra la Finlandia e Cipro.
Obiezione: ma c'è la crisi! Lasciamo rispondere a Obama: «C'è chi dice che non possiamo permetterci di investire in ricerca, che sostenere la scienza è un lusso quando bisogna dare priorità a ciò che è assolutamente necessario. Sono di opinione opposta (...). Per reagire alla crisi oggi è il momento giusto per investire molto più di quanto si sia mai fatto». Risultato: oggi l'America mette nella ricerca il 2,8% del suo Pil, contro l'1,26 dell'Italia. E in Germania la Merkel ha lanciato la «Exzellenzinitiative» incrementando i fondi per la ricerca, in cinque anni, di 10 miliardi di euro.
Spiega una tabella elaborata su dati Ocse da Federico Neresini, curatore dell'Annuario scienza e società, che i Paesi che più investono in questo settore coincidono con quelli che meglio reggono all'urto dei colossi della manodopera a basso costo come Cina o India: se noi abbiamo 4 ricercatori ogni 1.000 occupati (la metà dell'Europa allargata: 7) la Norvegia ne ha 10,1, la Svezia 10,9, la Danimarca 12,6, la Finlandia e l'Islanda 17...
Lo stesso studioso dimostra che se dal 1981 al 1990, nella vituperata Prima Repubblica, siamo passati dallo 0,85% all'1,25 del Pil, da vent'anni non ci schiodiamo da quella miserabile percentuale. E intanto, mentre facevamo i bulli ai vertici G7, gli altri acceleravano. E gli Usa come detto salivano al 2,8% del Pil fornito alla ricerca, l'Europa dei 15 a 2,08, la Germania al 2,84, il Giappone al 3,26, la Svezia al 3,37, i paesi dell'Ocse al 2,38: il doppio di noi.
Non bastasse, per ogni euro che mette nel salvadanaio europeo destinato alla ricerca, l'Italia riesce a recuperare solo 60 centesimi a causa dei micidiali marchingegni burocratici: ogni progetto richiede una relazione in inglese di un centinaio di pagine con il prospetto delle spese, delle persone impegnate, dei carichi fiscali, delle combinazioni tra queste e quella legge nazionale e poi la privacy, l'impatto ambientale, le quote rosa… Direte: sono problemi anche degli altri. Giusto, ma le migliori università europee (ce ne sono 39 nelle prime 100 della classifica mondiale Time Higher Education e Qs: nessuna italiana) sanno che per Einstein o Majorana certe difficoltà burocratiche potrebbero essere insuperabili e sgravano i loro ricercatori da questi impicci di commi e codicilli. Noi no: ognuno deve fare da sé e conoscere sia la meccanica quantistica sia il decreto legislativo 626/'94 per la sicurezza sui luoghi di lavoro...
È in questo contesto che quei duemila docenti hanno scritto al governo contestando i criteri con cui saranno distribuiti i (pochi) soldi a disposizione della ricerca universitaria con il bando 2012 dei «Prin», Progetti di rilevante interesse nazionale. Cioè «una delle poche fonti di finanziamento accessibili agli studiosi per sviluppare liberamente le proprie ricerche e pubblicarne i risultati».
Secondo loro questi criteri sono infatti di «inaudita gravità» per vari motivi. Primo fra tutti: la legge prevede che la selezione nazionale dei progetti meritevoli di essere finanziati sia preceduta da una «preselezione» fatta al proprio interno da un comitato nominato in ogni università dal rettore. Procedura che, tradotta dal linguaggio «buro-accademico», consentirebbe a certi rettori di dare spazio ai loro famigli sbarrando la porta a eventuali geni ribelli.
Per non dire di un altro criterio: i progetti scelti per essere girati alla valutazione finale di Roma devono tener conto non solo degli aspetti scientifici ma anche degli «"aspetti di natura strategica", vale a dire politica o d'immagine, come le "possibili ricadute in termini di visibilità, attrattività, competitività internazionale" dell'ateneo o le eventuali "interazioni con soggetti imprenditoriali"». Traduzione: e se certe università, scartando il leopardiano «Dialogo di Malambruno e Farfarello» preferissero uno studio sui dialoghi tra Fiorello e Marco Baldini per finire sui giornali e attrarre più studenti incuriositi dagli studi «frizzanti»?
Punto sul vivo, il ministro dell'Università e della ricerca Francesco Profumo risponde ricordando non solo di essersi impegnato nel ripescare le risorse inutilizzate del 2010 «firmando un bando Prin per 175 milioni (che recuperava tutte le risorse 2010 e 2011) e uno Firb (fondo investimenti ricerca di base) per altri 58 milioni e mezzo». Ma insiste spiegando che la preselezione è necessaria per velocizzare le procedure riducendo «il numero dei progetti da sottoporre alla valutazione centrale (che due anni fa ha richiesto quasi due anni)» e spingere «le singole università a lavorare per operare una sintesi dei progetti che, a parità di punteggio assegnato dagli esperti Cineca, eviti il più possibile le disparità tra le diverse discipline di ricerca». Il tutto in linea con la «responsabilizzazione della singola università».
Quanto alla scarsità di soldi, proprio per le «incomprimibili esigenze di ogni comparto della pubblica amministrazione a partecipare solidalmente alla riduzione del debito» ha «voluto assegnare un numero maggiore di risorse attraverso bandi competitivi» per «allenare» i ricercatori in vista dell'«appuntamento del 2014, quando comincerà la partita serrata per guadagnarsi le ingenti risorse messe a disposizione dall'Europa, quasi 80 miliardi di euro».
Rispondono i promotori della contestazione, come Vittorio Formentin dell'Università di Udine, che in ogni caso per il 2012 sono stati stanziati (tra Prin e Firb) 69 milioni contro i 196 del 2009 e proprio il richiamo all'Europa è una plateale contraddizione. «Ho contribuito anch'io a fare le regole dell'European Research Council alle quali Profumo si richiama e posso assicurare che dalle altre parti non funziona così — conferma Salvatore Settis, che sedeva tra i 21 membri del consiglio con un altro italiano, Claudio Bordignon —. Mettere un tetto ai progetti che una università può proporre è una pazzia. A nessuno verrebbe mai in mente, in America, di stabilire che Yale o Princeton possono avere al massimo 41 o 76 progetti perché poi bisogna finanziarne 12 di un ateneo dell'Oregon e 16 di uno dell'Arkansas. Se paradossalmente meritassero di fare bottino pieno farebbero bottino pieno. Contano solo le eccellenze. I migliori vincono. Punto». «L'Italia sta facendo l'esatto contrario di quanto facciamo in Europa», ribadisce Bordignon, «L'Erc ha avuto un successo enorme distribuendo 7 miliardi e mezzo in sette anni proprio perché non ha mai sacrificato e non sacrificherà mai un solo progetto alle esigenze distributive».
Per capirci: fermo restando che ogni università nostrana, anche nella più sperduta delle balze prealpine o del Sud profondo può ospitare giovani straordinari che magari hanno intuizioni straordinarie da sviluppare, ha senso stabilire a priori che la Sissa di Trieste può preselezionare al massimo 11 progetti e l'«Aldo Moro» di Bari 33 oppure la scuola superiore Sant'Anna di Pisa 5 e l'Università del Molise 6 e la «Insubria» varesina 8? Siamo sicuri che dietro questa logica più che l'obiettivo di dare spazio alle eccellenze non ci sia quello di spartire una povera pagnotta rinsecchita dando una briciola a testa?
Gian Antonio Stella
 


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