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Federalismo e crisi rai nel paese di curlandia-E.Scalfari

EUGENIO SCALFARI FEDERALISMO, Rai, giustizia: tre questioni, vorrei dire tre piaghe perché restando per tanto tempo insolute si sono incancrenite al punto da diventar purulente, che ora arrivano ...

24/11/2002
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EUGENIO SCALFARI
FEDERALISMO, Rai, giustizia: tre questioni, vorrei dire tre piaghe perché restando per tanto tempo insolute si sono incancrenite al punto da diventar purulente, che ora arrivano tutte insieme nelle aule del Parlamento oltre che nelle piazze degli scioperi e dei girotondi. Se aggiungete che in quelle stesse aule e in quelle stesse piazze esse ne incrociano altre due non meno devastanti per il tessuto sociale e cioè la crisi economica e quella Fiat, avrete dinanzi agli occhi l'immagine d'un paese che versa in uno stato di confusione estrema e di estrema fragilità, percorso da umori intensi quanto mutevoli, giudizi che passano dal nero al bianco e viceversa a distanza di poche ore, personaggi che salgono e scendono vertiginosamente nella scala della popolarità. È vero che anche il resto d'Europa, anche il resto dell'Occidente non versano in condizioni ottimali, ma qui da noi sembra di vivere sul trapezio d'un equilibrista sotto al quale non esiste più alcuna rete di salvaguardia. Sotto al quale c'è un vuoto di idee, un vuoto di forze, un vuoto di razionalità. La sensazione che ciascuno di noi ne ricava è di impotenza e di pericolo.
Non è una bella sensazione.
* * *
In un lucido articolo pubblicato ieri sul Corriere della Sera Giovanni Sartori osserva che i grandi Stati federali - Usa, Canada, Germania - sono tutti nati dall'unione di entità statali precedentemente autonome o addirittura ostili tra di loro. Non è invece mai avvenuto che uno Stato unitario si spezzettasse e delegasse i suoi poteri a entità sottostanti.
Storicamente e logicamente Sartori ha ragione: uno Stato unitario può utilmente imboccare la via delle autonomie amministrative, ma se invece prende quella d'un federalismo spinto che attribuisca a Regioni o addirittura a raggruppamenti di Regioni piena sovranità legislativa e amministrativa su materie della massima rilevanza, andrà inevitabilmente a cacciarsi in un vicolo cieco in fondo al quale c'è la dissoluzione dell'identità nazionale, della coesione sociale e della competitività economica del sistema.
Mi sbaglierò, ma penso che se oggi il popolo italiano fosse interpellato attraverso un referendum consultivo sul gradimento nei confronti di un federalismo che attribuisce alle Regioni piena ed esclusiva sovranità sulla scuola (programmi e gestione degli istituti), sulla polizia (non vigili urbani ma pubblica sicurezza) e sulla sanità, cioè su tre servizi pubblici essenziali per la formazione, la sicurezza e la salute dei cittadini, l'affluenza alle urne sarebbe da record e il "no" a un progetto così scriteriato sarebbe massiccio sia al Sud che al Nord.
E del resto se cerchiamo una conferma non tanto indiretta a questa previsione, la possiamo facilmente ricavare dall'accoglienza calorosa che il capo dello Stato riceve in tutte le visite che compie infaticabilmente da due anni nelle province del paese: accoglienze non solo da parte degli amministratori locali ma di cittadini di ogni età e condizione, operai contadini professionisti imprenditori studenti; tutti consenzienti sulla sua vera e propria predicazione sull'identità nazionale, la solidarietà e i simboli che rappresentano quei valori.
Lo Stato centralista e burocratico è un obbrobrio di inefficienze, di lentezze e spesso di malaffare; la gestione delle Regioni non è stata - mediamente - migliore; spesso è stata decisamente peggiore. Per di più con duplicazioni, conflittualità e costi esorbitanti.
Un decentramento era dunque indispensabile, un federalismo sulla base dei Comuni avrebbe avuto un fondamento e un radicamento potente nella realtà storica italiana. Il federalismo della devoluzione bossiana non è invece che la riesumazione della politica secessionista imposta da Bossi a Berlusconi quale prezzo per far confluire la Lega nel polo di centrodestra. La cambiale è ora arrivata a scadenza e il Polo deve pagarne il prezzo, pena l'uscita della Lega dal governo.
Potrebbe il Polo sopravvivere a uno scossone di questo genere? In termini numerico-parlamentari sì, in termini politici no. Perciò pagano, sulla pelle del paese.
* * *
Del resto anche nelle file dell'alleanza di centrodestra il disagio per il diktat di Bossi è palese. Il retro-pensiero di alcune componenti della Casa delle Libertà e reso esplicito in alcuni incontri riservati (ma trapelati nei giorni scorsi) è quello di accontentare Bossi con un voto al Senato che funga da regalo natalizio; dopo di che il passaggio alla Camera sarebbe rinviato nel tempo e poi - trascorsi i tre mesi di intervallo previsti dalla procedura per le leggi di emendamento costituzionale - si arriverebbe alla seconda lettura in entrambe le Camere; a quel punto prenderebbero corpo alcuni emendamenti della maggioranza per depotenziare la carica esplosiva del testo originario.
Se questo è il retro-pensiero non credo che ci si possa cullare su di esso; l'esperienza ci dice infatti che il potere è un collante capace di tenere insieme qualunque contraddizione; quanto alla fronda che pure è visibile di tanto in tanto all'interno del Polo, essa segue piuttosto il motto del flectar non frangar piuttosto che il suo inverso.
Un argomento più serio riguarda la costituzionalità della "devolution".
Porre il problema a proposito di un emendamento alla Costituzione vigente proposto sulla base dell'articolo 138 richiede naturalmente molta attenzione e non si può prestare a interpretazioni fantasiose. E' sintomatico il fatto che proprio ieri il ministro della Giustizia, Castelli - specializzato nella tecnica che, con tutto il rispetto, definirei il calcio del mulo - abbia qualificato come fazioso di sinistra il presidente della Corte costituzionale sol perché questi aveva osservato che votare la "devolution" con procedura d'urgenza prima che sia stata votata la legge d'attuazione della riforma federalista approvata nella precedente legislatura e confermata da apposito referendum popolare, è un'irritualità costituzionale rilevante. È altrettanto sintomatica la dichiarazione di Berlusconi che, per spianare la strada alla "devolution" ostacolata al Senato dall'opposizione, ha manifestato la sua inclinazione a porre nei prossimi giorni la fiducia per tagliar corto a un dibattito che dovrebbe essere invece ampio e approfondito data la gravità della materia.
Ma resta il fatto che la riforma, in principio legittima, del titolo V della Costituzione non può essere lesiva dei principi fissati nella parte Prima della stessa Costituzione laddove si proclama che la Repubblica è una e indivisibile e che essa ha come fondamento la solidarietà tra tutte le sue componenti sociali e territoriali.
Spezzettare i principi formativi che sono alla base della scuola pubblica, affidare alle Regioni in via esclusiva la gestione del servizio sanitario non a caso definito nazionale, attribuire alle Regioni il diritto esclusivo in materia d'imposte tasse e spese trattenendo sul proprio territorio le risorse in esso prodotte e, infine, frantumare la polizia in "nazionale" e "regionale" non mi sembra sia conforme all'unità e indivisibilità dello Stato e ai valori di coesione e solidarietà affermati in Costituzione e certamente non emendabili se non da un'Assemblea dotata di poteri costituenti.
Questi nodi verrebbero probabilmente al pettine nel momento in cui il capo dello Stato dovesse promulgare una legge di emendamento in palese contrasto con i principi generali della Costituzione e/o nel momento in cui una siffatta normativa fosse sottoposta alla verifica di costituzionalità dinanzi alla Corte.
Nel frattempo non si può non assistere con un senso di vera e propria vertigine allo scempio in corso di ogni prudenza e di ogni senso di responsabilità da parte dei "pasdaran" del secessionismo e dal cinismo con il quale le altre componenti del Polo soggiacciono ai voleri della Lega, calci del mulo e ragli compresi.
* * *
Il tema giustizia è altrettanto gravido di conseguenze; ne riparleremo a tempo opportuno. Ma due parole sulla crisi della Rai sono doverose.
Due consiglieri d'amministrazione si sono dimessi. Un terzo esita a farlo. "Vorrei e non vorrei" recita il bravo Staderini che desidererebbe prima sapere se le sue dimissioni avranno l'effetto di azzerare il Consiglio e di mandare a casa i due "giapponesi" (Baldassarre e Albertoni) asserragliati nel palazzo del cavallo. Singolare, lo Staderini: ci si dimette da una carica se la propria presenza e le proprie proposte si rivelano sistematicamente respinte e dunque inutili.
Quanto ai due giapponesi, che in realtà sono tre come i moschettieri se vi si aggiunge l'ineffabile direttore generale che prende ordini telefonici dal presidente del Consiglio proprietario di Mediaset, essi stanno mettendo in scena lo spettacolo al tempo stesso più comico e più abietto cui si sia assistito in tutta la storia dell'Italia repubblicana e forse anche di quella monarchica. Ma gli impresari dello spettacolo stanno fuori dal teatrino Rai; stanno a Palazzo Chigi da dove partono ordini e direttive tattiche da parte di chi sarebbe tenuto ad una rigorosa neutralità in una materia che è al centro d'un conflitto d'interessi macroscopico. Ma stanno anche in alcuni settori dell'opposizione: abbiamo ascoltato l'altro ieri un'incredibile dichiarazione del segretario dei Comunisti italiani, Diliberto, il quale a proposito delle dimissioni dei consiglieri Zanda e Donzelli ha commentato che "essi non rappresentavano la sinistra nella sua interezza" e quindi il fatto non riguardava il suo partito.
In effetti quei consiglieri rappresentavano se stessi, come deve avvenire in tutti gli organi che amministrano una società per azioni, e avevano cercato in molti mesi di faticoso lavoro di risollevare le sorti di un'azienda in evidente declino di qualità e di competitività.
Credo che, quali che siano i seguiti di questa sciagurata vicenda, i partiti d'opposizione non dovrebbero in nessun caso suggerire nomi di altri candidati anche se richiesti. La legge conferisce il potere di nomina ai presidenti delle Camere. Nessuno dovrebbe dunque permettersi di suggerire nomi e criteri di nomina ed essi - i due presidenti - non dovrebbero permettersi di chiedere e tantomeno di ascoltare lumi e consigli di chicchessia
Questo in una democrazia seria e non da operetta. È utile ricordare che appena quattro mesi fa il capo dello Stato inviò un solenne messaggio al Parlamento sull'importanza del pluralismo nell'informazione? È utile ricordare che il messaggio fu accolto dal generale plauso del governo, del suo presidente del Consiglio e delle Camere? È utile constatare che dal giorno dopo governo maggioranza e presidente del Consiglio hanno considerato quel messaggio come carta da mandare al macero? Nell'Italia repubblicana sembrava impossibile arrivare a simili livelli di indecenza. Nella Repubblica di Curlandia evidentemente si usa così.


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