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Facia a faccia: professione insegnante-1

www.casadellacultura.it Intervista a Annamaria Calderoni Annamaria Calderoni E' docente di italiano e storia dal 1973. Attualmente insegna all'istituto professionale per il turismo e il commercio...

11/10/2002
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Intervista a Annamaria Calderoni
Annamaria Calderoni
E' docente di italiano e storia dal 1973. Attualmente insegna all'istituto professionale per il turismo e il commercio Oriani Mazzini

Cominciamo dall'inizio, perché ha scelto questa professione?

Si trattò solo in parte di una scelta consapevole. Avrei voluto fare ricerca all'interno dell'università, ma non ce n'era la possibilità e così mi sono orientata all'insegnamento. In qualche modo, era una strada segnata: mia madre era insegnante e il mondo della scuola lo conoscevo già. Devo dire che poi con gli anni mi sono appassionata al mio mestiere, soprattutto per quel che riguarda il rapporto con i ragazzi.

Eppure proprio dal rapporto con i ragazzi sembrano scaturire le maggiori occasioni di frustrazione per l'insegnante...

Il nostro è un lavoro in cui si ha il vantaggio-svantaggio di portarsi il lavoro a casa. Da una parte ciò è bello, soprattutto se lo si fa con passione, dall'altra parte pone una serie di problemi di equilibrio mentale. Io direi che il fatto di avere questo rapporto privilegiato con gli adolescenti poi pone qualche problema agli adulti. Nel corso degli anni gli studenti sono molto cambiati. Il cambiamento grosso è avvenuto nel corso degli ultimi 10 anni e ha subito una accelerazione negli ultimi cinque. Le trasformazioni sociali e famigliari cui abbiamo assistito hanno tolto figure di riferimento ai ragazzi, che ne sentono la mancanza. Il problema non è, a mio avviso, la dequalificazione delle conoscenze. Si tratta piuttosto dell'atteggiamento nei confronti della scuola. La scuola ha perso il ruolo di promozione sociale che aveva. Noi lo vediamo con gli stranieri: per loro la scuola è ancora uno strumento di promozione e hanno un atteggiamento molto diverso, sono più motivati, più disponibili. Da quando insegno, poi, la scuola non è cambiata quasi per nulla dal punto di vista della didattica, le metodologie sono ancora quelle tradizionali. La scuola è rimasta immobile, ma gli studenti hanno altre aspettative. Negli istituti professionali le cose sono un po' diverse, ci sono state piccole riforme che ci hanno concesso di riconvertirci, di cambiare un po' mentalità.

Per alcuni la presenza di studenti immigrati rappresenta una fonte di problemi, un elemento di stress'

Io ho classi numerose, da 34 studenti, e ho 6 studenti figli di immigrati. Una di loro è arrivata da solo un anno in Italia. Se gli studenti immigrati diventano un problema è perché siamo lasciati soli ad affrontarlo. Fino all'anno scorso avevamo il progetto stranieri: in sostanza ore speciali di italiano per loro. Ora non c'è più e comunque non basterebbe. Adesso servono dei facilitatori culturali; gli immigrati sono tanti e arrivano un po' da tutto il mondo: paesi dell'est, Africa, Filippine'Se non sanno una parola di italiano, ovviamente, l'intero processo di apprendimento è compromesso.

Come si ripercuote sugli insegnanti tutto questo?

Siamo frustrati. Si ha l'impressione che a livello istituzionale non ci sia molto appoggio. I risultati del nostro lavoro si vedono solo sul lungo periodo, riconoscimenti esterni non ce ne sono quasi. La gente ha in mente solo le ore di lezione e i mesi di vacanza, tutto il lavoro sommerso necessario per prepararsi alla lezione non viene tenuto in considerazione. È invece fondamentale per impiantare una didattica di tipo nuovo. Ma non se ne accorgono neanche al Ministero, come può accorgersene o stimarlo un genitore?

Quanto influisce il rapporto con i genitori?

Nel nostro tipo di "utenza" molto spesso non sanno come agire con i ragazzi e sono poco partecipi alla vita della scuola: arrivano solo quando scoppia il problema. Delegano e basta.

La scuola è un mondo chiuso su se stesso?

È certamente un mondo autoreferenziale. Il problema grosso dentro la scuola è quello degli adulti. Molto spesso tra gli adulti si riproducono le dinamiche della classe. Il rapporto tra adulti è sempre mediato dalla presenza dell'allievo, anche durante i consigli di classe. Si creano dinamiche perverse, in alcuni casi. Sarebbe necessario trovare degli ambiti in cui sono gli adulti che si confrontano e si misurano da adulti.

Cosa si potrebbe fare per consentire agli insegnanti di lavorare al meglio?

Senz'altro c'è necessità di un ascolto all'interno della scuola. Sono state introdotte figure di psicologi e tutor, ma sempre con un ruolo di mediazione tra l'insegnante e lo studente; ci vuole qualcosa di più, uno spazio di autocoscienza, dove far venire a galla anche quello che non funziona. E poi più momenti tra colleghi, in cui non si parla solo di didattica, un confronto più aperto. Quello che bisogna combattere è l'isolamento. L'idea che una volta chiusa la porta dell'aula il mondo rimane fuori e tu sei dentro. Poi, come dicevo prima, bisogna poter staccare ogni tanto, potersi prendere un anno sabbatico, in cui, per esempio, andare a vedere che cosa succede nelle scuole europee.

Come vedrebbe l'introduzione di test psicoattitudinali per selezionare i docenti? E come li vedrebbe la categoria?

Alcuni lo accetterebbero, per altri sarebbe un problema. La cosa strana è che sono gli insegnanti più giovani che trovano più difficoltà con la classe. Purtroppo il nostro è un lavoro in cui ci si forma sul campo. Molto spesso chi è appena arrivato non ha abbastanza pazienza, perché anche quella è una cosa che si impara. In età adolescenziale, l'apprendimento passa attraverso la relazione. Devono sentire che l'insegnante non è solo quello che ha in mano il registro, ma una persona aperta nei loro confronti. Il rispetto deve essere conquistato. Per gli insegnanti più giovani spesso l'allievo è un qualcosa che sta seduto dall'altra parte, che ha dei doveri nei confronti dell'adulto. Questo è vero, senz'altro, ma il rapporto non si esaurisce lì. Si rifanno forse a un modello vecchio di insegnamento. Le scuole di formazione del resto si basano ancora prevalentemente sui contenuti, poco sulla didattica o sulle esperienze e poi l'impostazione è fatta a livello universitario e nell'università si sa poco di quello che succede sul campo.

Secondo lei c'è consapevolezza del disagio, all'interno della categoria?

No, non c'è coscienza di trovarsi in una situazione di grave stress, non si è disposti a riconoscerlo, ad ammetterlo a se stessi, ma la demotivazione è diffusa. Sono pochi quelli che si confrontano con i colleghi sulle difficoltà che affrontano. Io stessa ho avuto dei momenti di depressione, più per difficoltà di rapporto con i colleghi che con gli studenti. Il rapporto con la classe cerco di salvaguardarlo sempre. Io ho sempre parlato delle mie difficoltà, ma ecco vorrei che anche gli altri facessero lo stesso. Solo l'unica a vivere questi problemi? Certe volte, mi sento un pesce fuor d'acqua.


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