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Faccia a faccia: istituti professionali e riforma-Intervista a Marica Pia D'Angelo Rositi

Maria Pia D'Angelo Rositi E' dirigente scolastico dell'IPSSCT L. V. Bertarelli di Milano dal 1987. Vicepresidente del CIDI di Milano, collabora col Provveditorato agli Studi e con numerosi centri di...

20/06/2002
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Maria Pia D'Angelo Rositi
E' dirigente scolastico dell'IPSSCT L. V. Bertarelli di Milano dal 1987. Vicepresidente del CIDI di Milano, collabora col Provveditorato agli Studi e con numerosi centri di ricerca. Si occupa di nuovi modelli organizzativi nella scuola dell'autonomia e delle problematiche legate al successo formativo.

Faccia a faccia: istituti professionali e riforma
Intervista a Marica Pia D'Angelo Rositi

Cosa significa oggi essere direttore scolastico di un istituto professionale?

Premetto che ho una formazione classica: ho insegnato lettere nei tecnici e, una volta vinto il concorso, sono diventata preside in questo pianeta nuovo. Accadeva quindici anni fa e da allora non ho più voluto cambiare, perché queste scuole hanno un fascino davvero particolare. Intanto perché sono quelle che si trasformano più rapidamente. Ho sempre lavorato al Bertarelli, una scuola centrale nell'area milanese, e ho partecipato dall'interno ai notevoli processi di innovazione che in questi ultimi quindici anni hanno interessato gli istituti professionali. Queste trasformazioni ebbero origine con il "Progetto 92", che nacque verso la fine degli anni ottanta per iniziativa di un'area di centro sinistra. Sorto come progetto sperimentale, in seguito è stato esteso a tutti i professionali e ha dato luogo al nuovo ordinamento, tuttora in vigore. Ci fu un grosso investimento da parte del Ministero e l'istruzione professionale venne sottoposta a una grossa cura ricostituente, che coinvolse presidi e docenti. Fu un vero e proprio terremoto, perché costrinse a uscire dalle routine esistenti, creando aree di docenti aperti al nuovo.

Gli istituti professionali in questi ultimi anni sono quelli che hanno avuto il massimo delle innovazioni, anche se non sempre sono state consolidate o portate fino in fondo. Si può accusare quest'area professionale-tecnica di un eccesso di apertura al cambiamento, ma ciò costituisce un fatto positivo.

L'altro elemento che ci caratterizza è il forte radicamento sul territorio. Abbiamo sempre avuto un forte rapporto con gli enti locali che investe anche gli aspetti curricolari. In pratica, esiste una terza area di professionalizzazione in cui gli studenti di quarta e quinta, per un giorno alla settimana, seguono percorso definito dalla Regione in cui ottengono un secondo titolo professionale (guida turistica o tecnico di commercializzazione dei servizi). Sono percorsi che sostanzialmente corrispondo a quelli post-diploma e sono molto significativi, perché pongono in primo piano la necessità dell'integrazione tra istruzione e formazione professionale.

Esiste poi un altro livello in cui sperimentiamo l'integrazione, quello degli studenti portatori di handicap. In questi casi i ragazzi trascorrono tre anni presso l'istituto e due presso un centro specifico di formazione, con percorsi di tipo più operativo. È una scelta che i genitori fanno volentieri, perché permette ai ragazzi di rimanere almeno per qualche anno in un ambiente di istruzione, cominciando però ad avvicinarsi a un certo tipo di operatività.

Tutto ciò può funzionare a condizione che ci siano grossi sforzi di monitoraggio e di coordinamento, poiché il rischio è che ognuno vada per la sua strada e lo studente si trovi disorientato.

Come sono destinati a cambiare gli istituti professionali?

Le novità che si prospettano, compreso l'ultimo Protocollo d'Intesa firmato da Ministero e Regione, sono preoccupanti. In questo protocollo si anticipa l'eventuale riforma, senza che ci sia stata alcuna discussione preliminare con le realtà scolastiche e, soprattutto, senza che ci sia stato un dibattito parlamentare. Probabilmente queste normative interesseranno settori più operativi (ad esempio lavorazione del legno o cucina), ma presentano dei rischi legati alla possibilità di governare questi processi di cambiamento.
Il mio timore è che quest'area perda d'importanza e non sia più centrale rispetto alle problematiche dell'istruzione nazionale. Negli ultimi dieci anni ci siamo trovati al centro di una serie i processi innovativi, adesso rischiamo di diventare marginali. Questo accadrebbe in un momento in cui i nostri compiti si fanno sempre più ardui, come quello dell'insegnamento dell'italiano agli studenti stranieri. Il ruolo degli istituti professionali si potrebbe oggi paragonare a quello che avevano negli anni sessanta nei confronti degli immigrati meridionali.

Infine c'è il problema della dispersione. Noi siamo l'ultima frontiera per gli studenti: quelli che vanno male al liceo passano ai tecnici e da questi come ultima spiaggia si arriva ai professionali. Ciò significa che qui si presentano anche studenti di sedici o diciassette anni con tre bocciature alle spalle, che hanno un rapporto con la scuola e con la formazione assolutamente negativo. Il nostro compito è ricostruire questo rapporto, ma soprattutto fornire le competenze necessarie per ottenere risultati nello studio. Fino a ora l'abbiamo fatto grazie a un elevato numero di docenti tutor, ma per il futuro tutto ciò è in forse.

In relazione a questi rischi di marginalizzazione, è appropriato parlare di un ritorno a una scuola classista, magari dettato anche da precise scelte ideologiche?

Direi di sì. Noi cerchiamo di evitarlo, ad esempio investendo molto sulla formazione dei docenti. La scuola classista può essere combattuta a livello politico e questo è compito del parlamento. Ciò che possiamo fare noi come istituto è ricercare l'eccellenza, in modo da offrire a questi studenti, che appartengono alle fasce più deboli della società, possibilità vere di cambiamento.

Per questo è necessario agire sulla formazione dei docenti. Il docente dei licei ha poche necessità di cambiamento: ha i propri canali di autoformazione, se sa bene il greco è già un buon insegnante e le famiglie degli studenti fanno da supporto. Nei professionali è diverso. Qui il docente deve conoscere la sua disciplina che è sempre in fortissima evoluzione. È richiesta un'apertura verso l'esterno e dunque diventa fondamentale fornire canali di formazione del livello più alto possibile. Inoltre, il rapporto con le famiglie è pressoché inesistente.

Cosa comporta a livello personale essere insegnare in un professionale?

È molto faticoso e insieme gratificante. Personalmente ho scelto di rimanere qui, pur avendo possibilità di trasferirmi nei licei, perché preferisco rimanere in un contesto dove posso vedere l'efficacia del mio lavoro. Qui tra gli insegnanti è facile trovare una maggiore motivazione unita a una maggiore fatica. Gli studenti, specialmente quelli di prima e seconda, sono particolarmente difficoltosi: molti non conoscono l'italiano mentre altri sono assolutamente disinteressati.

C'è consapevolezza negli studenti che scelgono di iscriversi qui?

Nella maggior parte dei casi no. Abbiamo sviluppato una serie di analisi sulla nostra utenza - su cui terremo un convegno a settembre - che ci dicono che questa scelta è fortemente condizionata dalla provenienza familiare. Inoltre, c'è ancora scarsa conoscenza del funzionamento di questi istituti: gli stessi docenti delle medie confondono l'istruzione professionale con la formazione professionale. Sulle pagelle dei ragazzi che prendiamo il più delle volte c'è scritto: "si consiglia un breve corso professionale". Dopodiché i ragazzi arrivano qui e si trovano di fronte a una scuola impegnativa, con quaranta ore di corso settimanali, senza contare il fatto che molti di loro lavorano sia perché cercano di mantenersi sia perché comunque hanno un atteggiamento orientato al lavoro.
Anche per questo è necessario acquisire tecniche specifiche di insegnamento, senza eccedere con i compiti da svolgere a casa.

L'orientamento verso un sapere di tipo pratico può rendere questo tipo di scuola un punto di riferimento per la vita reale degli studenti?

In parte sì. Per molti dei nostri studenti la scuola è l'unico referente e vi investono molto. Tuttavia si tratta di un investimento emotivo e non culturale, legato a una visione della scuola come luogo di socialità. Negli ultimi anni ci sono state molte concessioni verso una scuola che venisse incontro a queste esigenze degli studenti, ma questo ha rischiato di produrre come effetto negativo una progressiva dequalificazione del nostro lavoro. Il problema rimane sempre quello di fornire contenuti che siano il più possibile legati alle esigenze reali.


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