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Dramma Università: crollo delle matricole e ricercatori in fuga

numeri degli atenei italiani degli ultimi dieci anni sono drammatici: tra i diciannovenni 1 su 4 non si iscrivono e 97 ricercatori precari ogni cento sono stati espulsi. Cgil: "senza finanziamenti l'università muore"

02/10/2015
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la Repubblica

Corrado Zunino

ROMA - La due giorni sulla crisi dell'università italiana, pensata dalla Cgil scuola, la sua federazione della conoscenza, ha la forza - alla vigilia di una riforma universitaria che il governo sta affrontando con cautela viste le contestazioni non ancora chiuse sulla Buona scuola - di mettere insieme i dati usciti negli ultimi due anni, da più fonti, sul mondo accademico. La collana di numeri offre in modo immediatamente leggibile un quadro drammatico dell'università italiana. Drammatico, sì, seguendo le cifre liberate in fila. In dieci anni, dal 2004 al 2014, gli iscritti al primo anno sono passati da 338.482 a 260.245 (dati Miur). Anche se nelle ultime due stagioni la flessione media è rallentata e nelle università del Nord le matricole sono tornate a crescere, la perdita all'università di 78 mila diciannovenni, che sono il 23 per cento di una generazione, uno su quattro, è un dato da emergenza nazionale. E poi, qui parla lo Svimez, il tasso di passaggio dalla scuola superiore all'istruzione terziaria è sceso al Nord al 58,8 per cento e al Sud al 51,7, le cifre più basse dell'ultima decade. L'Ocse ci ricorda, e Francesco Sinopoli della segreteria nazionale della Cgil lo sottolinea, che il tasso d'ingresso all'università in Italia è al 40 per cento quando tra le nazioni sviluppate è al 60: "Siamo l'unico paese in cui gli iscritti all'università diminuiscono".

È necessario andare avanti per comprendere lo stato dell'arte. Siamo 32esimi su 37 paesi Ocse come aliquota di laureati: il 21 per cento. In Corea del Sud nel 2011 i laureati erano il 64 per cento quando trent'anni prima non raggiungevano il 10. Se restiamo in Europa, a proposito di laureati in rapporto con la popolazione in età di lavoro, peggio di noi c'è solo la Romania. Tutto questo accade mentre la spesa pubblica è aumentata del 10,7 per cento (tra il 2011 e il 2014) mentre gli investimenti destinati all'università sono scesi dall'1,19 per cento alo 0,95. Da noi, e in altri quattro paesi europei, i tagli di bilancio nel settore sono stati superiori al 5 per cento.

I docenti degli atenei italiani nel 2013 erano 55 mila, con un calo complessivo del 13 per cento in dieci anni. E nell'ultima decade - questo è il dato straordinario - sono stati espulsi 97 ricercatori precari ogni cento. Nel 2014 afronte di 2.324 pensionamenti sono stati attivati solo 141 contratti a tempo determinato (fonte Ricercarsi). Nel Sud in sei anni si è perso il 38 per cento delle posizioni per un dottorato. Infine l'Andisu, l'associazione che si occupa del diritto allo studio, ha portato all'uditorio il suo carico ricordando che in Italia lo Stato spende sul diritto allo studio 600 milioni quando in Germania l'intervento è da 4 miliardi e in Francia da 3,6.

Il quadro è chiaro. La proposta Cgil per disegnarne un altro? Il segretario Sinopoli nel suo intervento ha chiesto un ritorno massiccio di finanziamenti pubblici, il ritorno dell'autonomia degli atenei spazzata dalla riforma Gelmini, il blocco delle scelte premiali nel finanziamento ordinario: "Più ricercatori, più  offerta universitaria, stabilizzazione dei precari, indennità di disoccupazione per gli asegnisti e, in generale, rifiuto delle categorie suicide di adeguamento alla domanda del mercato e di eccellenza". I tavoli di lavoro, in molti casi poco inclini a fare proprie le proposte Cgil, porteranno a un documento finale "necessario per costruire una via d'uscita dalla crisi dell'università".


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