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"Costretti a fare selezione per scongiurare cali di qualità"

Il rettore della Bicocca

01/07/2019
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la Repubblica

Matteo Pucciarelli

MILANO — «Il problema è che le risorse a nostra disposizione sono limitate, altrimentifaremmo moltepiù immatricolazioni», dice Cristina Messa, rettore uscente della Bicocca di Milanoemembro dellagiunta della Conferenza dei rettori delle università italiane.Nello scorso anno accademico nellasua università un altro corso è diventatoa numerochiuso eper questol’ateneo ha registrato una flessione del 4 per cento.

Traduciamo: non potete "accogliere" tutti…

«Il contesto milanese in generale è di aumento delle richieste di immatricolazione, lo dimostra il fatto che il 60 per cento dei nostri corsi è programmato, quindi appunto a numero chiuso. Nostro malgrado dobbiamo fare delle selezioni in entrata, altrimenti la qualità del servizio che offriamo non sarebbe all’altezza».

Che tipo di risorse vi servirebbero?

«Dipende dalle discipline. In alcuni corsi ad esempio, purtroppo, prendiamo uno studente ogni 10 o 15 che ne fanno richiesta. Occorrerebbe un aumento della nostra pianta organica del 30 per cento, come tecnici e professori, e un altro 10 per cento di spazi. È vero che siamo in un’epoca tecnologica dove c’è e-learning, ma le esperienze sul campo sono ancora fondamentali».

Milano è un caso italiano a parte?

«In parte sì, questa è una città molto attrattiva per le università perché qui poi si trova lavoro, è una porta verso l’Europa, comunque spesso ci si arriva e ci si resta. Mandare i figli a Milano è un investimento sul lungo termine. In generale comunque un fenomeno interessante è che gli studenti tendono a fare le triennali vicine al luogo di origine e poi la magistrale la si fa dove si vorrebbe cercare lavoro».

A livello generale, perché il nostro Paese è così indietro rispetto al resto d’Europa?

«Gli indici di investimento su università e ricerca sono i più bassi del continente. Mancano risorse umane e infrastrutturali e per gli studenti il diritto allo studio non è garantito. Poi in generale c’è stata negli anni una comunicazione negativa sul valore dello studio, come se laurearsi non servisse più a nulla, un pezzo di carta che prendi e attacchi al muro. Andrebbe ripensata l’offerta formativa complessiva: oggi ogni ateneo punta su qualcosa di innovativo ed è giusto che ci sia una autonomia, però manca una regia complessiva a livello nazionale».

Quando è cominciata la comunicazione negativa sullo studio di cui parlava prima?

«Direi una ventina di anni fa, c’è stato un attacco generale alla cultura.

Prima la laurea serviva da ascensore sociale, "io che vengo da una famiglia umile voglio che mio figlio si laurei".

Questo non lo si pensa più, anche perché la mobilità sociale si è bloccata. Dopodiché a Milano chi può manda i figli a studiare all’estero, al Sud invece chi può li manda a Milano…».

La politica quali colpe ha?

«Purtroppo su università e ricerca non c’è da tempo una sensibilità vera, perché in fin dei conti è un argomento che non conta e non incide in campagna elettorale. La politica adesso è tutto un "qui e subito", quel che si può fare sul lungo termine non interessa. Così come si fa fatica a tradurre la complessità: si va molto di pancia».

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