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Corsi di storia per chi studia fisica e ingegneria

All'’Università di Roma Tre lezioni sull’Ottocento e il Novecento per gli iscritti a facoltà scientifiche. Il rettore Luca Pietromarchi "Disciplina necessaria al pieno svolgimento della cittadinanza"

29/02/2020
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la Repubblica

Simonetta Fiori

Un corso di storia moderna e contemporanea per studenti di matematica, fisica, ingegneria, scienze. Comincerà lunedì prossimo all’Università di Roma Tre con la partecipazione dei nomi più importanti della storiografia italiana. Due le novità. Non era mai accaduto che il curriculum accademico di futuri ingegneri, fisici e scienziati includesse lezioni sulle nazioni e gli imperi tra Ottocento e Novecento e la crisi delle democrazie. Ed è la prima volta che un corso universitario ha origine da una campagna giornalistica e da un Manifesto. «Queste lezioni sono figlie della campagna di Repubblica e del Manifesto scritto da Andrea Giardina », dice Luca Pietromarchi, francesista di ottima scuola e dal 2017 rettore dell’Università di Roma Tre.

Un insegnamento storico rivolto a studenti delle cosiddette "scienze dure". È la prima volta nell’università italiana?

«È la prima volta che un corso di storia viene immaginato e organizzato per studenti che non sono tenuti a studiarla. Sul piano del regolamento, un allievo di ingegneria può anche sostenere un esame di filologia dantesca presso un altro dipartimento. Ma non era mai accaduto che un ciclo di storia fosse tagliato su misura per studenti di altre discipline».

Come sarà strutturato?

«In modo agile e sintetico, per chi specialista non è e non vuole diventarlo. O, per dirla con uno slogan, per chi la storia non è tenuto a studiarla ma è tenuto a conoscerla. È una sfida doppia, sia per gli studenti che per i professori. Gli studenti dovranno misurarsi con una disciplina estranea alla loro vocazione. E i professori dovranno misurarsi con una platea inconsueta, che ignora gli argomenti trattati ma è mossa da curiosità».

Per i docenti esistono delle precise regole di ingaggio?

«Abbiamo scelto i migliori nomi della storiografia, con un’avvertenza: sentitevi liberi, usate tutti i registri possibili per appassionare i ragazzi. L’ho detto anche ad Andrea Giardina e a Gilles Pécaut, ad Andrea Graziosi e a Salvatore Bono: se serve, siate anche guitti, recitate, alzate la voce, ricorrete a qualsiasi stratagemma pur di convincere gli studenti che hanno fatto la scelta giusta: dedicare ore preziosissime a una materia fuori curriculum».

E i professori?

«Mi sembrano molto contenti, anche divertiti. Arrivano tutti da altre università perché sarebbe stato impossibile organizzare il corso con gli interni. E ho chiesto ai colleghi della mia università di limitarsi a presentare i docenti ospiti e poi lasciarli soli con i ragazzi: proprio per evitare che i professori da noi chiamati possano sentirsi condizionati dall’eventuale sguardo di riprovazione del collega interno».

La sua iniziativa va controcorrente in un’Università italiana che negli ultimi vent’anni ha visto dimezzare gli insegnamenti di storia. Secondo alcuni, la responsabilità è anche dei docenti che non sono capaci di rendere appassionante la materia.

«No, non credo che questo sia il problema. Gli insegnamenti di storia calano perché cala la richiesta dei ragazzi. E la richiesta dei ragazzi cala perché è sempre più ristretto lo sbocco professionale. Interviene sempre la drammatica domanda: e io da grande cosa faccio?».

Questo è il primo problema, che si pone anche nelle università americane. Poi interviene una questione che riguarda la didattica della storia: non tutti sono capaci di intercettare la sensibilità delle nuove generazioni.

«Per rispondere a questa necessità, abbiamo strutturato il corso a partire dalle domande di oggi. Nel titolo di ogni lezione c’è sempre qualcosa che si riferisce al presente. Migrazioni, criminalità, globalizzazione, ambiente: per agganciare l’attualità e, insieme, l’attenzione dei ragazzi. E poi voglio ricordare qualche nome di chi farà lezione, Salvatore Lupo, Franco Benigno, Raffaele Romanelli, Giovanni Gozzini, Agostino Giovagnoli, Umberto Gentiloni».

Il nuovo corso di storia nasce dalla campagna di Repubblica e dal Manifesto scritto da Andrea Giardina, e sottoscritto da Liliana Segre e Andrea Camilleri. Anche questa è una novità: non era mai accaduto che l’accademia istituisse un insegnamento per rispondere all’appello di un giornale.

«Il manifesto stesso nasce da un problema che avevamo avvertito da tempo: la mostruosa carenza di informazione storica nella società italiana. Per questo siamo stati immediatamente reattivi. Ogni volta che si fa un riferimento storico davanti a uno studente di Lettere la reazione è spesso di smarrimento. Ma la rivoluzione russa? Non ci siamo arrivati. Il fascismo? Non ci siamo arrivati. La Repubblica italiana? Non ci siamo arrivati. Ecco, l’intento è proprio quello di portare gli studenti là dove a scuola non sono arrivati».

La mancanza di conoscenza storica è diventata un’emergenza civile.

«Sì, ne riscontriamo segnali ogni giorno. Per questo la storia non può essere considerata solo una materia professionalizzante ma una disciplina necessaria per il pieno svolgimento della cittadinanza. Il senso della nostra iniziativa è proprio questo: te la insegno, non ti servirà per lavorare ma ti serve per lavorare meglio».

Oggi la storia ha perso il ruolo sociale esercitato fino a qualche decennio fa: un tempo era una sorta di bussola per capire la contemporaneità, oggi non lo è più.

«Tutto ci magnetizza nel presente, e purtroppo se ne vedono le conseguenze. Su Repubblica un dirigente scolastico ha riproposto il capitolo XXXI dei Promessi Sposi con la descrizione della peste nel 1630. Quell’incipit descrive perfettamente Milano al tempo del coronavirus. Se conosco la peste del Manzoni, capisco meglio le dinamiche isteriche di oggi, il panico, il sospetto, l’assalto ai forni di Renzo. La storia mette tutto sull’asse del tempo: è fondamentale per assumere la giusta distanza rispetto agli accadimenti che eccitano le emozioni».


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