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Corriere-devolution-la parola per dirlo

Alla voce "devolution" LA PAROLA PER DIRLO (MALE) di CLAUDIO MAGRIS Modesta proposta, come diceva Swift, l'immortale e implacabile creatore di Gulliver. Propongo che a pronunciare la par...

10/12/2002
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Corriere della sera

Alla voce "devolution"

LA PAROLA PER DIRLO (MALE)

di CLAUDIO MAGRIS

Modesta proposta, come diceva Swift, l'immortale e implacabile creatore di Gulliver. Propongo che a pronunciare la parola "devolution" sia autorizzato, per legge, soltanto Alberto Sordi. Nessuno come lui ha infatti espresso e interpretato con altrettanta perfezione la vocazione italica a fare "l'americano", ad atteggiarsi a frequentatore di Kansas City o a proprietario di un ranch pur abitando nelle borgate romane o nel Varesotto, a fare eroici tentativi per preferire la Coca-Cola al barbera e soprattutto a usare senza necessità parole inglesi, sebbene con una pronuncia alquanto discutibile. Non c'è infatti alcuna ragione per dire "devolution" anziché riforma federalista, così come è scorretto ed improprio chiamare "governatori" i presidenti delle Regioni, quasi potessero, come nei film, concedere o no la grazia al condannato sulla sedia elettrica. Per fortuna è un uso che fa ridere e dunque è giusto essergli grati, perché nella tristezza del vivere ogni momento comico e ogni occasione di riso sono benvenuti. Con la sua maschera, Sordi voleva, genialmente, essere non un personaggio unico e irripetibile, ma un tipo, una faccia di massa interscambiabile con innumerevoli altre. Anche adesso gli Alberto Sordi che si sciacquano la bocca con la parola "devolution" sono tanti, indistinguibili copie di una macchietta. Oggi il termine "devolution" ripetuto meccanicamente assomiglia al "cioè" post-sessantottino e rivela, dolorosamente, quanta superficiale retorica e quanti generici slogan vi siano nelle discussioni su un tema fondamentale per il Paese e per la vita di tutti, quale l'assetto del Paese stesso e la sua riforma in senso federalista. Direttamente o indirettamente, questa retorica rivela un'indifferenza nei confronti dell'autentica unità del Paese, nei confronti dell'Italia, o una volontà, consapevole o inconscia, di distruggerla.
Del resto lo dimostra chi ha a suo tempo usato a vanvera la parola "secessione" - che significa distruzione dell'unità del Paese - pur senza avere il coraggio o la reale intenzione di farla e certo senza avere lo stile cavalleresco e aristocratico del vecchio Sud americano e del generale Lee. La fine dell'arcaico e arteriosclerotico centralismo, il decentramento e il federalismo sono esigenze primarie del Paese ed è più che necessario conferire maggiore autonomia agli organi locali, a cominciare dai Comuni - i quali, del resto, sono stati forse negli ultimi anni i protagonisti della più considerevole innovazione della realtà politica italiana. Che ad esempio una Regione possa e debba curare, nell'istruzione, una propria specificità è più che giusto, ma sempre nell'ambito di una formazione gener ale che caratterizza un Paese, la sua cultura, la sua scuola, il suo modo di essere. Una "esclusiva" competenza in materia scolastica, che conducesse gli alunni del Veneto a ignorare Dante per imparare a memoria El moroso de la nona del buon Giacinto Gallina, sarebbe ridicola. E la stessa cosa vale per la pretesa, avanzata da qualche "governatore", di un'autonoma politica estera. È pensabile un Trentino-Alto Adige che persegua una politica filo-irachena? L'Italia non è una mera espressione geografica, come diceva Metternich. È un Paese, uno Stato, una Patria. Il federalismo è buono se la consolida ed è cattivo se la disintegra o indebolisce. Le diversità e le particolarità sono il sale della vita e della libertà, ma solo se si inquadrano in una superiore unità. Dante diceva che a furia di bere l'acqua dell'Arno aveva imparato ad amare fortemente Firenze, ma aggiungeva che la nostra patria è il mondo, come per i pesci il mare. Una dissoluzione degli Stati europei in microrganismi indebolirebbe l'Europa, che un giorno dovrà diventare un Stato forte ed ha bisogno di Stati forti, non di un caleidoscopio di etnie. Un'Europa forte, naturalmente, è gradita solo a se stessa e a nessun altro, né ai suoi alleati come gli Stati Uniti - ai quali giustamente il dollaro interessa più dell'euro e che comprensibilmente desiderano un'Europa debole - né ai suoi possibili e potenziali nemici. Ma un'Europa forte dovrebbe essere appunto gradita a s e stessa, e un'Italia, liberata da ogni pachidermico centralismo ma unita dovrebbe essere gradita a se stessa e cioè agli italiani, compresi quelli che, come i personaggi di Alberto Sordi o di Carosone, vogliono fare "l'americano". Claudio Magris


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