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Come si insegna la storia?

Vinta la sfida, insieme a Repubblica, di riportarla all’esame di Maturità ora gli studiosi si interrogano su metodo e contenuti per trasmetterla al meglio ai ragazzi. A cominciare dai manuali scolastici

26/11/2019
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la Repubblica

Simonetta Fiori

QROMA

uando comincia il Novecento? Quali "oggetti storici" occorre selezionare per restituirne la complessità? E della lunghissima storia precedente — dalla caduta dell’Impero romano fino alla fine del XIX secolo — che cosa bisogna valorizzare? Quando si apre il file "insegnamento della materia storica a scuola", le domande rischiamo di superare le risposte. E bene ha fatto la casa editrice Laterza a rompere il ghiaccio intorno a una questione che ha uno stretto rapporto con l’esercizio della cittadinanza. L’incontro in via di Villa Sacchetti, il primo di una serie, nasce «dopo un passaggio simbolico importante che è il ripristino della traccia storica nell’esame di maturità », ha ricordato Alessandro Laterza all’inizio del seminario affollatissimo. E questo importante risultato è stato ottenuto grazie all’appello di Repubblica scritto da Andrea Giardina insieme a Liliana Segre e Andrea Camilleri, un Manifesto per la Storia — ha tenuto a rimarcare Giardina nel suo intervento — che non è stato lanciato da un’università o da un partito, ma da un quotidiano. «Uno dei capitoli più interessanti nella storia del giornalismo degli ultimi decenni», l’ha definito lo studioso, che presiede la Giunta Centrale degli Studi Storici ed è vice direttore della Scuola Normale di Pisa. «Siamo tutti cresciuti nella convinzione che tra giornalismo e democrazia ci fosse un nesso naturale. Ora siamo obbligati a ricordarlo perché nulla è più scontato».

Vinta la battaglia per l’esame di maturità, bisogna ora interrogarsi su come trasmettere informazione e consapevolezza storica alle generazioni più giovani. Generazioni per le quali l’orizzonte della contemporaneità è fatalmente più ristretto e «anche i fatti salienti della storia nazionale degli ultimi cento anni — le guerre mondiali, il fascismo, la fondazione della Repubblica italiana, il boom economico, la stagione del terrorismo, Tangentopoli — rischiano di essere relegati in una dimensione di passato lontano, pressoché inattingibile», dice Laterza. Il dato con cui confrontarsi è la densità di dati e informazioni fisiologicamente più alta nel XX secolo. «Superato il tramonto del mondo bipolare, la situazione si complica ulteriormente. Non essendoci più alcun criterio ordinatore del racconto e dilatandosi lo scenario geopolitico, anche i manuali più avvertiti inevitabilmente affastellano le notizie secondo un principio puramente cronachistico. Dovremmo cercare di ridurre questa complessità». Ma per liberare il racconto da troppi "oggetti" storiografici, si è costretti a fare una scelta, e la cosa non è facile. «Io comincerei a tagliare l’esposizione puntuale degli eventi bellici della prima e della seconda guerra mondiale: è proprio così indispensabile?», domanda l’editore. La proposta sembra riscuotere consensi. Vittorio Vidotto, autore con Giardina e Giovanni Sabbatucci di uno dei manuali più fortunati, ricorda esperienze scolastiche in Gran Bretagna in cui la storia contemporanea è concentrata su alcune singole questioni. «Ne discende uno studio più analitico e in diretto contatto con gli storici di professione ». Poi una domanda semplice, che tocca il cuore della questione: «I nostri ragazzi sanno perché si studia storia? Qualcuno gliel’ha mai spiegato? E i professori sanno esattamente perché si insegna? Questo è un problema che tutti dobbiamo porci».

Ma quando far cominciare il Novecento? Molti tra gli storici presenti concordano sulla necessità di farlo partire dal 1914, l’anno di inizio della Grande Guerra, che è anche la data scelta da Hobsbawm nel suo "secolo breve". Anna Foa ricorda le parole sapienti di suo padre Vittorio quando diceva che la prima guerra mondiale era stata molto più importante e significativa della seconda, della quale era stato testimone partecipe. Eppure quelle immagini arrivano ai ragazzi sgranate, in bianco e nero, tracce di un pianeta sideralmente lontano. «Ma senza la Grande Guerra», interviene Alberto Mario Banti, «non si potrebbe cogliere la forza devastante delle ideologie nazionalistiche. Impararne la lezione è un modo per cominciare a esplorare pulsioni e ideologie estreme che stanno riaffiorando nell’attualità ». Però non ci si può fermare a quelle trincee. Un’indagine recente della casa editrice Laterza (su una quarantina di licei italiani) mostra come i programmi dell’ultimo anno raramente riescano a oltrepassare la canzone del Piave. «Questo succede», spiega Laterza, «perché nella classe precedente spesso ci si ferma alla Restaurazione e al 1848». Quindi è vero che i programmi ministeriali indicano il Novecento come il periodo da trattare nell’ultimo anno, ma spesso i professori sono costretti a inaugurare il corso facendo lezione sul Risorgimento. Per evitare questo, «sarebbe opportuno ridurre il racconto minuto delle guerre di religione cinque-seicentesche o delle guerre di successione settecentesche ». Meno battaglie, in sostanza, e più informazioni su come si viveva, mangiava, lavorava e pregava in quei secoli lontani. Ma non è solo una questione di periodizzazione o di selezione degli "oggetti" storici. Franco Benigno, modernista della Scuola Normale di Pisa, propone un rovesciamento di sguardi. «Nei manuali l’immagine non può più avere solo una funzione puramente illustrativa, ma deve essere contestualizzata al pari dell’evento storico narrato: solo così possiamo dare ai ragazzi strumenti critici per orientarsi in un mondo caratterizzato prevalentemente dalle immagini ». C’è anche chi mette in discussione l’intero edificio scolastico, che oggi prevede l’apprendimento della preistoria e della storia antica già nelle scuole elementari. Giardina, specialista del mondo romano, oppone due obiezioni essenziali. «I bambini a quell’età non hanno ancora acquisto la dimensione del tempo, per cui della tradizione antica possono cogliere solo la favola, non la diversità in accezione antropologica ». E la storia — ammonisce lo studioso — serve soprattutto a fornire la percezione dell’altro. «Io proporrei di restringere l’orizzonte storico dei bambini e dei ragazzini delle scuole medie al mondo in cui vivono, insieme all’esperienza esistenziale dei genitori e dei nonni. E comincerei il programma della storia antica solo nelle prime due classi della secondaria superiore, quando gli studenti sono capaci di muoversi nella diacronia». Idee e proposte che saranno dibattute nei prossimi incontri in casa editrice, ai quali dovrebbero partecipare non solo i professori universitari ma anche i docenti della scuola. I soli che possano misurarne l’efficacia.


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