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Come parlare agli studenti del massacro di Parigi? Vivere ed educare dentro la guerra

di Aluisi Tosolini

19/11/2015
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La Tecnica della Scuola

Aurélie Collas è una giornalista del quotidiano francese Le Monde: domenica ha firmato un interessantissimo articolo intitolato “Attaques à Paris : les enseignants s’efforcent de gérer le cours d’après”.

L’articolo affronta un tema che di certo è stato al centro dei pensieri e delle riflessioni anche dei moltissimi docenti italiani che già sabato 14 e poi ieri, prima del minuto di silenzio, hanno discusso con i loro alunni dei fatti di Parigi.

Dopo il dolore si trovano le parole

"Dopo il dolore, si trovano le parole", dice un insegnante sul suo account Twitter.  E altri, grazie ai social, hanno elaborato, dice Le Monde, la trama dell’intervento educativo ben riassunta nei punti proposti da un docente di Lione:

  1. osservare l'immagine di Marianne piangere (ci si riferisce ovviamente sia alla Repubblica di Francia in quanto tale che a una delle immagini più diffuse dopo i fatti di venerdì 13, ovvero il profilo di “Marianne” con la faccia rigata di lacrime)
  2. denunciare i fatti
  3. rassicurare
  4. definire terrorismo
  5. riflettere su una frase di Martin Luther King sulla necessità di "imparare a vivere insieme",
  6. realizzare un lavoro (disegno, testo,…) per esprimere e tirar fuori ciò che si sente

Trovare e condividere le parole è infatti importantissimo per iniziare ad elaborare un vissuto sconvolgente.

E nel farlo è necessario tener conto in primo luogo dell’età degli studenti, senza per questo pensare di poter tenere all’oscuro dei fatti i più piccoli. Essi infatti vivono comunque l’angoscia e lo stordimento degli adulti di riferimento, vedono la televisione, assistono al pianto dei grandi.

Nel contempo occorre “non terrorizzare” poiché ciò corrisponderebbe esattamente alle finalità dei terroristi le cui azioni hanno proprio la finalità di impaurire e terrorizzare la vita quotidiana di intere popolazioni.

Occorre poi tenere presente che tutte le classi (in Francia come quasi ovunque in Italia) sono classi plurali, multietniche e multireligiose. Da qui la necessità di riflettere sull’imparare a vivere insieme: sarebbe infatti gravissimo se il clima di sospetto nei confronti delle persone di religione islamica si diffondesse nelle classi. Si verrebbe a creare una situazione insostenibile con il rischio di identificare tra i propri compagni i futuri (o attuali) terroristi.

La terza guerra mondiale a pezzi

Papa Francesco da diverso tempo adopera questa dizione per descrivere la situazione in cui vive il mondo contemporaneo. Affermazione quanto mai vera se si guardano i conflitti contemporanei e la loro tipologia, il loro essere assolutamente asimmetrici.

Senza retorica credo si possa certamente concordare con quanti – ad esempio Gino Strada di Emergency – hanno sostenuto che i fatti di Parigi fanno purtroppo sperimentare direttamente come è la vita quotidiana di intere popolazioni. Di quanti vivono in Siria, ad esempio. E poi si capisce perché non possano che fuggire perché ogni posto è migliore rispetto alla Siria dell’Isis.

Vivere ed educare dentro la guerra?

Elaborare con i propri studenti i fatti di Parigi (ma anche di Bagdad,  Beirut e di cento altre città) non può quindi significare pensare al solo 13 novembre. O a un fatto isolato e difficilmente ripetibile. Al contrario significa iniziare a chiedersi come vivere dentro la guerra.

Come essere scuola dentro la terza guerra mondiale a pezzi. Che scelte assumere, che cultura elaborare, come essere costruttori di pace e di democrazia dentro l’assurdità della violenza.

Un compito immane che sfida la capacità della scuola di costruire futuro.

Ne riparleremo


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