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Cara Prof Insegnateci i diritti della Terra

" Quello che faccio non l’ho imparato a scuola" Lettera a una docente su che cosa va cambiato dopo un anno di lezioni finito ma mai cominciato

12/06/2021
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la Repubblica

di Giorgio Brizio

Gentile Professoressa, spero stia bene dopo l’ultimo anno difficile. Faccio questa cosa per me insolita; le scrivo una lettera come si faceva una volta. Come sa, la mia quinta liceo è stata violentemente scossa, ho rocambolescamente sostenuto un esame di maturità le cui regole venivano mischiate di continuo. C’è a chi è andata peggio: gli amici e le amiche che si trovavano in quarta superiore quando è iniziato il lockdown hanno perso la parte più bella e importante del loro percorso liceale, non hanno praticamente più visto i compagni. Io che nel frattempo ho cominciato il corso di laurea in scienze internazionali, ho frequentato le uniche quattro ore in presenza giusto prima che le lezioni finissero.

Siamo stati tanto a casa. Senza accesso al luogo dove si dovrebbe imparare. Le lezioni ce le ha impartite il Covid. Vede Professoressa, io non credo molto nella retorica del «che cosa abbiamo imparato dalla pandemia», perché noi esseri umani impariamo di rado e con grande difficoltà. Ma se c’è un momento in cui l’uomo è ancora in grado di imparare, è l’adolescenza. E se c’è un luogo in cui questo può avvenire, è sicuramente la scuola. È a partire dalla scuola che, dopo la pandemia, bisognerebbe farsi domande e provare a darsi risposte costruttive su come (re)agire.

Ora che è finito l’anno scolastico che non è mai davvero cominciato, guardando indietro a quei mesi, vedo le molte cose andate perdute. Alcune si potranno recuperare e lei Professoressa, insieme ad altri docenti, so che farà di tutto per colmare i ritardi dei programmi e mettere i ragazzi nelle migliori condizioni possibili per affrontare il futuro. Ma il futuro non è fatto solo di preparazione e di didattica. Come lei sa bene, esiste un’educazione sentimentale oltre che professionale ed è questa educazione che, oggi, dopo quanto avvenuto, forse può essere ripensata. La scuola, come la Terra e come l’attuale sistema economico e sociale, era già malata prima della pandemia.

Sogno una scuola che abbia sempre un occhio sull’attualità, che sappia raccontare in modo critico le urgenze dell’oggi e del domani, con un programma meno lungo e più approfondito (il semplice fatto che gli studenti alla fine dell’anno dimentichino buona parte di quanto affrontato in classe nei mesi precedenti credo debba far pensare), che sappia leggere lo studio del passato legandolo a ciò che accade nel presente, che faccia tenere agli studenti la testa non solo china sui libri ma più alzata verso esperienze concrete e possibilità di sbocchi lavorativi. E la soluzione non può essere soltanto l’alternanza scuola-lavoro, debole e poco efficace per come attualmente è strutturata. Non crede Professoressa che i crediti riconosciuti per attività extrascolastiche dovrebbero avere maggiore importanza? Magari considerando davvero gli interessi degli studenti al di fuori delle lezioni, facendoli diventare argomento di condivisione in classe e superando la semplice registrazione numerica del risultato raggiunto.

Viviamo in tempi nebbiosi, navighiamo in acque burrascose. Di fronte alla tempesta che avanza — l’emergenza climatica, sociale, sanitaria, economica, umanitaria — c’è chi sta su uno yacht e chi vive con l’acqua alla gola, galleggiando a malapena su una zattera di legno a remi. La pandemia ha messo a nudo tutte le ipocrisie e disparità della nostra società: chi non riesce a vederlo semplicemente non sta guardando.

Sono un attivista per i diritti umani e per quelli della Terra, e credo che la scuola possa e debba essere lo spazio naturale della formazione sulla difesa dei diritti e della nostra casa comune. Combattere la crisi climatica significa combattere per il nostro futuro. Non c’è scuola senza futuro e non c’è futuro senza scuola. Ma, cara Prof, mi addolora scriverle che, anche se ho avuto buoni insegnanti, la maggior parte delle cose che ho imparato per quello che faccio ogni giorno le ho imparate fuori dalla mia classe. L’articolo 34 della nostra Costituzione recita che la scuola è aperta a tutti e allude a un’idea di uguaglianza sociale intrecciata al principio di democrazia che è alla base della Carta repubblicana. È lo spazio dove si apprende, si comprende, si sperimenta la democrazia. «Credo che la scuola debba essere un luogo in cui si inizia a fare politica. Politica nel senso più alto del termine, per contrastare questa fase di anti-politica». È la frase che ho sentito dire una volta a Fabio Geda, educatore e scrittore di libri (anche) per ragazzi. È nella scuola che ci si avvicina alla conoscenza della vastità del mondo, che si fa esperienza della convivenza laica e pacifica che rappresenta il fondamento culturale e morale di cui ogni Paese ha bisogno per non cadere in rovina.

Io sono fortunato perché, come sa, ho frequentato una scuola in cui mi sono trovato bene, che mi ha dato molte possibilità. Il liceo Spinelli di Torino non ha enormi difficoltà, e soprattutto non cade a pezzi. Non tutti in Italia possono dire lo stesso. I vari governi degli ultimi anni si sono differenziati su molte tematiche. Non sui fondi tagliati a istruzione e sanità, su cui si dovrebbe puntare in assoluto.

Per questo, cara Professoressa, sono convinto che non andrà tutto bene, come si diceva durante il lockdown, se non faremo il necessario affinché vada bene. Non siamo e non saremo mai tutti sulla stessa barca, a meno che questa barca non decidiamo di costruirla e di salpare assieme.


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