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Aggiustiamo la scuola -Intervista a Francesco Antinucci

www.casadellacultura.it Aggiustiamo la scuola Intervista a Francesco Antinucci di Agnese Bertello e Marco Rolando Il metodo di apprendimento sui libri, radicato da secoli nei sistemi scolasti...

19/09/2002
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Aggiustiamo la scuola
Intervista a Francesco Antinucci
di Agnese Bertello e Marco Rolando

Il metodo di apprendimento sui libri, radicato da secoli nei sistemi scolastici della nostra società, oggi è messo in crisi dallo sviluppo dei nuovi mezzi di comunicazione e delle tecnologie informatiche. Secondo Francesco Antinucci, esperto dei processi di apprendimento e di comunicazione, la scuola, così com'è, rischia seriamente di scomparire. A meno che'

Nel suo ultimo libro "La scuola si è rotta" lei sottolinea come l'istituto scolastico si basi su metodologie radicalmente opposte ai processi naturali di apprendimento che seguono il cervello e il corpo. La scuola si basa sul metodo simbolico-ricostruttivo ed è diventata "un'organizzazione di supporto all'autoapprendimento", cervello e corpo generano conoscenza elaborando le esperienze dirette. Ma se questa è la natura dell'uomo, allora perché finora ha retto questo modello e come mai oggi è entrato in crisi?

Quando non si può fare esperienza, ad esempio, quando gli oggetti del nostro studio non sono a portata di mano, oppure non è possibile manipolarli a causa delle loro dimensioni, vi è un modo valido di apprendimento: il metodo simbolico-ricostruttivo, cioè lo studio sui libri. Nei moltissimi casi in cui è difficile fare esperienza, questa modalità è insostituibile. Tuttavia, nel corso dei secoli l'apprendimento sui libri è stato generalizzato a tutto, perdendo di vista l'importanza dell'esperienza. Questo è accaduto sostanzialmente in virtù della diffusione di una particolare tecnologia: la stampa.
Il modello va in crisi quando entrano in gioco una serie di mezzi - comunicativi, manipolativi e di conoscenza - non più di tipo testuale. È una crisi lunga, che ha inizio con l'avvento di tecnologie che permettono la riproduzione e la manipolazione della realtà.
Per una persona della mia generazione, la sua unica finestra sul mondo è sempre stata ciò che leggeva o ciò che veniva detto verbalmente. Da alcuni decenni è ben diverso, perché la televisione permette di fare un'esperienza visiva. Oggi abbiamo varcato un confine - che non coincide con la nascita della televisione, ma con la sua diffusione - per cui ogni bambino di tre anni ha già visto la televisione e ha un modo di apprendere già molto diverso rispetto alle generazioni precedenti.
Le esigenze della società, insomma, cambiano e con esse i modi di apprendimento. Quello simbolico produce conoscenze di tipo rigido, difficilmente adattabili e modificabili. Per stare al passo con questi cambiamenti sarebbe necessaria una colossale riforma della scuola, estremamente difficile da realizzare. La prima difficoltà risiede nella separazione, presente nel nostro sistema formativo, tra sapere pratico e teorico. Questo "divorzio" fa sì che l'applicazione pratica di ciò che si conosce diventi un processo lungo e difficoltoso. Non è un caso che in Italia gran parte delle professioni abbiano un praticantato. L'ideale a cui ispirarsi dovrebbe essere il lavoro in bottega, dove praticantato e apprendimento sono lo stesso percorso.

Ci troviamo in una situazione in cui il computer potrebbe entrare nelle scuole su larga scala. Ammesso che ci sia questa possibilità, perché non viene concretizzata?

Sostanzialmente per due motivi. Un cambiamento del genere è molto radicale, perché la scuola si è costruita intorno alla tecnologia della stampa, cioè dell'apprendere simbolico. Cambiare questa organizzazione significherebbe rivoluzionare tutto il sistema scolastico. Chi lo farebbe? In quanto tempo e come?
Inoltre, non essendoci aperture verso questo cambiamento, non sono pronti materiali didattici in grado di sostenerlo. Da questo punto di vista, però, questo problema sarebbe facilmente risolvibile. Quando nacque la scuola non c'erano i libri di testo e oggi, alla vigilia di un'ipotetica riorganizzazione, potrebbe accadere lo stesso. Si sa già in che direzione andare, perché esistono simulazioni e ci sono decine e decine di ricerche su forme comunicative appropriate, abbastanza facili da adoperare strumentalmente. In due anni di tempo sarebbe possibile dotarsi di strumenti formativi validi, spendendo la metà di quanto richiede l'attuale "riciclaggio" periodico dei libri di testo. Sì, perché oggi più che produrre libri nuovi per le scuole, si riciclano i vecchi, aggiungendo ogni volta appendici, con il risultato di avere volumi sempre più pesanti. Con una frazione di questi soldi sarebbe possibile produrre i programmi per computer specificamente adattati all'apprendimento.

Come è vista questa sua tesi nel mondo universitario?

Incontra molte resistenze. Molti, come me, sostengono l'idea della "scuola dell'esperienza", ma molti altri la rifiutano, soprattutto dal punto di vista ideologico. Ci si sente degli esperti in materia, per il semplice fatto di essere andati a scuola. Questi "esperti" ogni volta che si è in vista di una riforma, tirano fuori la solita diatriba sul latino nei licei, senza tenere conto, però, che sette ragazzi su dieci non frequentano il liceo.
Il problema di fondo è che noi tendiamo a considerare la scuola non solo dal punto di vista dell'apprendimento, del saper fare e dell'imparare ad apprendere, ma come un fatto di educazione. Pensiamo che la scuola debba trasferire agli allievi certi valori, come fa la famiglia. Questa è una forma di indottrinamento che andrebbe distinta dall'apprendimento vero e proprio.
Dal punto di vista della formazione, invece, sarebbero da privilegiare le conoscenze fondamentali, quelle attraverso cui impariamo ad apprendere e su cui costruiamo altre conoscenze, un po' come le quattro operazioni in matematica sono la base per qualunque ricerca e avanzamento nel campo scientifico.
Di queste conoscenze ce ne sono poche e non è facile mettersi d'accordo su quali dovrebbero essere assolute e indispensabili. Non è un caso che tutte le riforme scolastiche siano un ripensamento su come selezionare i contenuti da insegnare.

In un sistema scolastico che riducesse al minimo le conoscenze di base, ciascun studente potrebbe avere un suo percorso. Non è rischioso?

Rischi ce ne sono, però dobbiamo porci una domanda: quanto è importante che tutti abbiano le stesse conoscenze, nello stesso momento e alla stessa età? Credo che ciò non sia affatto importante. Avremo tutti le stesse conoscenze nella misura in cui queste sono conoscenze di base. Le altre devono essere costruite individualmente.

Tra le funzioni della scuola però c'è anche l'inserimento dell'individuo nella società, il suo coinvolgimento in una comunità. Questa funzione verrà meno in futuro?

Personalmente sostengo una vecchia idea illuministica, secondo cui è possibile fornire un percorso di conoscenze senza indottrinamento. Molti paesi non ne sono capaci. Ad esempio, negli Stati Uniti le scuole sono confessionali e qualsiasi comunità pensi di avere qualcosa da insegnare ai propri figli crea una scuola. E così decine di istituti insegnano la teoria della bibbia, sostenendo, tra l'altro, che non esiste l'evoluzione umana.
È importante che un ragazzo sia messo nelle condizioni di assumersi le proprie responsabilità. La scuola di oggi va nella direzione opposta, con l'insegnante che dice: "studia da pagina a pagina, perché poi c'è la verifica". In questo modo si crea un sistema passivo di apprendimento. Diverso è se un ragazzo si trova a dover scegliere il proprio percorso, perché allora è costretto a pensarci bene e a impegnarsi una volta scelto. L'ideale sarebbe che gli insegnanti ruotassero sugli allievi e non viceversa.
Esistono situazioni paradossali: nelle scuole si arriva a insegnare fino a quindici discipline, ma poi di fronte a certe semplici domande degli studenti ci si rende conto di non possedere le competenze utili. Se, ad esempio, si chiede a un insegnante che cos'è l'inflazione, difficilmente sarà in grado di rispondere, magari avviando un percorso di studio. Oppure può accadere che in un liceo classico, se uno studente vuole approfondire qualcosa di biologia, non trovi nessuno in grado di soddisfarlo. Abbiamo decine di materie e mancano le competenze elementari. Questo è il problema. Di conseguenza gli insegnanti vanno in crisi, non sono più convinti di ciò che fanno. Sono letteralmente travolti dal mondo. A questo punto non resta che giocare in difesa e arroccarsi sui propri diritti o privilegi che sono la difesa del posto di lavoro, l'orario e così via.

Realisticamente che futuro vede per la nostra scuola?

Senza un cambiamento radicale, la scuola potrebbe scomparire. Non c'era prima, potrebbe non esserci dopo. Potrebbe scomparire come istituzione di conoscenza e rimanere come giardino d'infanzia prolungato. Oggi abbiamo una scuola dottrinaria e piena di valori (in teoria) però mancano valori fondanti. Non si può trattare l'allievo come una specie di bicchiere da riempire per poi verificare se è abbastanza pieno. La libertà va di pari passo con la responsabilità La scuola, insomma, con l'avanzare delle tecnologie è a forte rischio di marginalizzazione.

E il futuro degli insegnanti?

Anche gli insegnanti eccezionali (che pure ci sono) si trovano inseriti in un sistema che ne limita fortemente le possibilità. C'è la follia del consiglio di classe, gli orari impossibili... È inconcepibile che un professore con sedici ore ruoti su quattro classi: come fa a conoscere o a seguire ottanta ragazzi in così poco tempo? È impossibile: egli entra in classe, dice la sua e il giorno dopo ritorna e li interroga. Ciò è ben diverso dal seguire un individuo nel suo percorso. Bisogna cambiare questa struttura, intanto dedicando tutte le sedici ore di un professore alla stessa classe. In un progetto sperimentale in una scuola di Bolzano, ci stiamo provando, con risultati incoraggianti. Gli insegnanti di fronte alle novità all'inizio recalcitrano, perché si sentono un po' spaventati (e poi diciamolo, oggettivamente il lavoro in questo modo aumenta), però in seguito ricevono più soddisfazioni e sono maggiormente motivati. Vengono fuori cose nuove e spontanee e gli insegnanti stessi sono costretti a rimettersi in gioco, imparando metodi nuovi. In questo ambiente collaborativo avremmo tutti da guadagnare.


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