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Fracassi: 8 marzo, stavolta ci vuole lo sciopero

Per la segretaria generale Flc Cgil la situazione sta peggiorando, dalla violenza di genere alla questione salariale e alla partecipazione democratica.

08/03/2024
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Collettiva.it

“Quest’anno è necessario dare un segnale molto forte, ancora più forte”. Non ci gira intorno la segretaria generale della Flc Cgil, Gianna Fracassi, quando le si chiede del perché la categoria della conoscenza (scuola, università, ricerca, formazione professionale, accademie e conservatori) ha proclamato una giornata di sciopero in occasione della Giornata internazionale della donna. Un 8 marzo di lotta, insomma, sottolinea Fracassi, che ricorda a questo proposito anche la grande manifestazione dello scorso 25 novembre contro i femminicidi e la violenza sulle donne. “C’è bisogno di una forte discontinuità su questioni molto serie che si stanno aggravando – ci dice – e che riguardano anche l’occupazione, la questione salariale, la partecipazione democratica”.

Cominciamo dalla violenza di genere…
Mancano serie politiche che siano efficaci nel contrastarle. D’altra parte i settori della conoscenza sono fondamentali per costruire un modello culturale diverso. Penso al ruolo della scuola e dell’università, da cui peraltro sono arrivate le denunce di tante studentesse e lavoratrici che mettono in evidenza le logiche gerarchiche, sessiste e baronali diffuse nel mondo accademico. E penso anche alla ricerca dove ancora, nonostante la forte presenza femminile, le donne continuano a subire forti discriminazioni. Ribadisco: i nostri settori sono importanti per contrastare un modello culturale diverso nelle relazioni di lavoro e non solo.

Avete posto anche il tema salariale tra le ragioni dello sciopero…
Il nostro è un modello sociale che non contrasta il gap salariale esistente tra uomini e donne. Un gap, va sottolineato, che esiste in ogni settore, anche in quelli più “elevati” dal punto di vista professionale.

Da cosa dipende secondo te?
I fattori sono molti. Il primo riguarda le difficoltà legate al fatto che sulle donne continua a pesare il lavoro di cura, non solo dei figli ma anche spesso degli anziani. Poi c’è la questione dell’iperprecarizzazione del lavoro che fa sì che ancora oggi le donne stiano nelle fasce più basse delle retribuzioni. Tra i nodi critici citerei infine il tema dell’accesso alle infrastrutture fondamentali della società: sanità, istruzione, sistemi socio-educativi. Faccio un esempio: il governo nel rimodulare gli obiettivi del Pnrr ha ridotto da 264 a 150 mila i posti negli asili nido.

Il che incide sulla questione della cura dei figli…
Ma non solo. Essendo settori a forte presenza femminile, interventi di questo tipo impattano negativamente anche sull’occupazione. In generale la questione salariale per noi è decisiva. Siamo alla vigilia del rinnovo del contratto in un comparto a stragrande maggioranza femminile e la risposta che il governo ha dato nello stanziamento delle risorse è del tutto inadeguata: non copre neanche un anno di perdita legata all’inflazione. In sintesi: un disinvestimento in settori come istruzione e sanità è un attacco diretto soprattutto alle donne.

E continuano anche gli attacchi alla legge 194, nonostante il governo ribadisca di non volerla toccare…
Sono attacchi ancora più subdoli perché, appunto, impliciti. E non mi riferisco solo all’inesigibilità del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza per i tantissimi medici obiettori. C’è anche una forte offensiva culturale che mette in campo una contronarrazione sul tema, persino in luoghi istituzionali e sostenuta da figure politiche di rilievo

A cosa ti riferisci in particolare?
Alla conferenza del 23 gennaio scorso in Parlamento organizzata dalla Lega e sostenuta dalle associazioni pro vita e a think tank di estrema destra e sovranisti come il Centro studi Machiavelli nel cui comitato scientifico c’è anche il ministro Valditara. In quella sede la legge 194 è stata definita come “non necessariamente immorale”. Siamo insomma alla presenza di un lavorio culturale che mira a portarci indietro di 50 anni.

Tu prima hai parlato di infrastrutture di cittadinanza. Che riguardano anche questioni centrali come le architetture istituzionali, la partecipazione democratica, gli equilibri dei poteri. Tra i temi più discussi c’è quello dell’autonomia differenziata. Che impatto avrà, nello specifico, nelle questioni di genere?
L’autonomia differenziata avrà un impatto notevole sulle donne, perché è quello che succede sempre quando le diseguaglianze e le marginalità aumentano. Non solo: siamo in presenza di una generale riduzione degli spazi di democrazia – basti pensare ai manganelli di Pisa, che però è solo l’ultimo episodio in ordine cronologico di una lunga sequenza – o comunque dell’idea che essa sia esigibile solo nelle elezioni, mentre vengono attaccati i modelli partecipativi diffusi che fanno la ricchezza democratica di un Paese. Qualunque contesto fortemente autarchico che cancella la democrazia diffusa penalizza la partecipazione femminile. Una conferma la hai se osservi il fatto che alle ultime elezioni politiche le donne hanno votato il 5% in meno degli uomini e questo dato è aumentato nel corso degli anni.

Perché questo avviene secondo te?
Io credo che l’arretramento dalla politica non solo “attiva” ma anche “passiva”, cioè dal voto, trovi le sue ragioni nel rifiuto di un modello politico maschile patriarcale. Il che è ancora più evidente se invece si guarda alle altre forme di partecipazione – come quella del volontariato – dove invece la partecipazione delle donne è altissima. Del resto, per chiudere tornando ai fatti di Pisa, sono state tantissime le donne – insegnanti e dirigenti – a prendere la parola.


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