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Riformista: Sull'università ora infierisce anche la Corte dei Conti

Bloccato il decreto del ministro Mussi per affidare la metà dei corsi a personale di ruolo. Chi salverà gli studenti dalla deriva dei professori a contratto?

08/06/2007
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Il Riformista

SAPERI. IL PROBLEMA NON È IL RANKING INTERNAZIONALE DEGLI ATENEI, MA LA QUALITÀ DELL’INSEGNAMENTO DI ALESSANDRO FIGÀ TALAMANCA

La discussione sulla qualità del nostro sistema universitario è approdata persino sugli schermi televisivi, attraverso una puntata di Anno Zero, andata in onda un mese fa. In questo contesto tutti hanno fatto riferimento a un'improbabile graduatoria o ranking delle università del mondo, di cui nessuno conosceva i criteri di costruzione. Ma perché meravigliarsene? Nei dibattiti televisivi si sente spesso parlare delle variazioni dell'indice dei prezzi al consumo da parte di chi dimostra di non avere la più pallida idea di come sia calcolato questo indice, che è certo più semplice e meno controverso di quelli usati per i ranking delle università.
Eppure il problema della qualità dell'insegnamento universitario riguarda tutti i cittadini, almeno nei suoi termini generali, ed è giusto che il sistema universitario italiano si confronti in termini di qualità con quelli degli altri paesi sviluppati. Dovremmo dunque diventare tutti esperti nella costruzione più o meno arbitraria di ranking? Io credo che non sia necessario, perché non è il ranking delle università, comunque calcolato, che dovrebbe interessare il pubblico e il mondo politico. Cercherò di articolare meglio questa mia opinione, partendo da un punto fermo: l'insegnamento universitario si distingue da altri insegnamenti perché è collegato con la ricerca scientifica originale.
Ci si può chiedere perché un'esperienza di ricerca scientifica sia così importante per l'insegnamento universitario. Non basterebbe che un docente conosca bene, avendolo appreso da altri, ciò che deve insegnare? La risposta non è semplice, ma cercherò di semplificarla al massimo. Apprendere attraverso la ricerca significa apprendere attraverso il dubbio e l'incertezza. Dubbio, incertezze, curiosità, domande che restano senza risposta, sono l'essenza del progresso delle conoscenze umane. Chi non ha avuto questa esperienza di apprendimento, chi ha appreso ciò che sa solo attraverso libri scritti da altri, e lezioni da altri impartite, chi ha imparato solo ciò che è ritenuto definitivamente acquisito dalla scienza, senza mai tentare di sfidarlo, resterà necessariamente legato ad un'idea dogmatica della conoscenza. Egli stesso, prevalentemente “ammaestrato” all'uso di saperi noti, sarà in grado soltanto di “ammaestrare” i suoi allievi. Certamente ci sono altri elementi che determinano una didattica universitaria efficace, ma il collegamento con la ricerca ne è una caratteristica essenziale. E infatti nel mondo occidentale le istituzioni i cui docenti non siano passati attraverso una vera e propria esperienza di ricerca originale non vengono considerate di livello universitario.
C'è un'altra ragione per la quale la ricerca scientifica è importante in ambito universitario. Affidare l'insegnamento a chi è attivo nella ricerca ha costituito, negli ultimi due secoli, il principale veicolo di trasferimento delle innovazioni della scienza agli ambiti professionali, industriali e in generale applicativi. Bisogna ricordare però che, perché questo veicolo di trasferimento funzioni, sono necessarie condizioni che non sempre si verificano e che meritano una discussione a parte (ad esempio le capacità innovative del sistema produttivo).
Dopo queste precisazioni, purtroppo molto sommarie, torniamo al problema che ci eravamo posti. Come possiamo paragonare la qualità dell'università italiana a quella degli altri paesi sviluppati, almeno in termini di ricerca scientifica? Come possiamo assicurarci che raggiunga livelli accettabili?
Bisogna prima di tutto osservare che in molti paesi, (ad esempio in Gran Bretagna e in California, dove prevalgono, come da noi, sistemi universitari statali) il collegamento tra insegnamento e ricerca scientifica non è sempre lo stesso per tutte le università. Ci sono le università che è conveniente (anche se, forse, ingiusto) chiamare di «prima classe» dove si richiede che il docente universitario sia sempre attivo nell'attività di ricerca, ma ci sono anche le università di «seconda classe» dove non ci si aspetta tuttavia che egli continui a essere attivo nella ricerca scientifica durante tutta la sua carriera. Si richiede però che tutti i docenti abbiano avuto una esperienza di ricerca originale, conseguendo ad esempio il titolo di dottore di ricerca e proseguendo nell'attività di ricerca per alcuni anni. In Gran Bretagna all'incirca il 50% degli studenti di primo livello consegue la laurea in una università di «seconda classe» (questa stima è riferita alle università che fino agli anni Novanta si chiamavano Polytechnics). In California la percentuale (riferita agli iscritti alle cosiddette California State University, ben distinte dalle University of California) dovrebbe essere del 70%.
In Italia, invece, con una scelta politica netta e consapevole, negli anni Settanta, abbiamo deciso di non distinguere due classi di università, ma di avere un unico sistema universitario. Si tratta ormai di una scelta irreversibile, ma nessuno può credere che questa scelta abbia dato luogo a una promozione indiscriminata alla «prima classe» di tutto il sistema universitario italiano. È naturale invece che all'interno del nostro sistema convivano situazioni che in altri paesi sono distinte per classe dell'istituzione: ci sono docenti attivamente impegnati nella ricerca, e docenti, che pur avendo avuto una ragionevole formazione attraverso la ricerca, non sono più impegnati attivamente in questo tipo di attività, ma si dedicano, spesso con passione e con successo, all'insegnamento.
È evidente, a questo punto, che per un serio confronto con altri paesi, non possiamo contare sulle graduatorie comunque costruite. L'Università La Sapienza di Roma svolge, nel suo territorio, non solo il ruolo svolto dall'Università di California a Los Angeles (Ucla), che appartiene alla filiera della «prima classe», ma anche quello delle tante California State University che svolgono egregiamente il loro ruolo di università di «seconda classe», nel territorio metropolitano di Los Angeles. La Sapienza, in effetti, non può essere paragonata né a Ucla, né, mettiamo, alla San Fernando Valley State University.
Questo non significa che dobbiamo rinunciare a valutazioni, anche comparative. E in effetti qualcosa è già stato fatto. Il recente esercizio di valutazione triennale promosso dal Miur, attraverso il cosiddetto Civr (Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca) i cui risultati sono usciti all'inizio del 2006, ha riguardato i prodotti scientifici migliori delle sedi universitarie, scelti dalle stesse sedi, nelle diverse aree scientifiche. Abbiamo appreso da questo esercizio che ricerca giudicata eccellente si svolge in tutte le grandi e medie sedi universitarie, in tutte le aree. A occhio e croce potremmo dire che ricerca del livello di quella svolta nelle università di «prima classe» della California si svolge, in misura maggiore o minore, in tutte le grandi e medie sedi universitarie.
È un segnale confortante, che non dice nulla tuttavia sui requisiti minimi perché l'insegnamento universitario possa essere dichiarato tale. Dobbiamo chiederci, infatti, se tutti i corsi universitari, con la possibile eccezione di quelli a carattere pratico, sono insegnati da personale docente che sia stato formato attraverso l'attività di ricerca, che, ad esempio, abbia avuto una formazione equivalente a quella fornita da un buon dottorato di ricerca europeo. A questa domanda, che sembra molto più importante per gli utenti del sistema universitario, della posizione di questa o quella sede universitaria italiana in qualche graduatoria, non sappiamo veramente rispondere. Né a questo proposito ci dice alcunché il pur meritorio esercizio di valutazione del Civr. Potremmo anche supporre, nonostante tutte le critiche che si possono fare al nostro sistema di reclutamento e promozione dei docenti, che il personale docente entrato stabilmente nei ruoli negli ultimi trent'anni risponda al requisito richiesto di aver svolto, almeno da giovane, attività di ricerca. Ma questa supposizione (che comunque dovrebbe essere verificata) non basta a fugare tutti i dubbi.
Infatti molti insegnamenti ufficiali, forse addirittura un quarto del totale, sono affidati ai cosiddetti «professori a contratto» scelti dalle singole sedi con criteri che non sempre garantiscono il livello di competenza dei docenti. Certamente non mancano ricercatori di primo ordine tra questi professori esterni. Basta pensare ai tanti ricercatori attivi degli enti pubblici di ricerca, che possono essere impiegati come professori a contratto. Ma il numero di insegnamenti ufficiali affidati a personale esterno ai ruoli delle università ha raggiunto livelli tali da rendere improbabile che si tratti sempre di persone che abbiano raggiunto il livello corrispondente, in Europa, al titolo di dottore di ricerca.
Facciamo un po' di conti, sulla base delle statistiche pubblicate nel sito del ministero. Dobbiamo prima di tutto escludere i docenti a contratto delle facoltà di Medicina, perché è la legge che, giustamente, impone di utilizzare, in larga parte, il personale medico ospedaliero per l'insegnamento delle discipline infermieristiche. Tra l'altro la pratica moderna della medicina (la cosiddetta evidence based medicine) imporrebbe che un'esperienza di ricerca attiva faccia parte del bagaglio culturale acquisito da tutti i medici specialisti, ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano. Ma, a parte Medicina, le altre facoltà italiane impiegano per l'insegnamento di corsi ufficiali più di ventimila professori a contratto. Sappiamo che molti di essi sono pagati cifre irrisorie e che in alcuni casi sostengono il peso delle materie di base e caratterizzanti di corsi di laurea di primo e secondo livello. Il dubbio che in molti casi si tratti di persone che non hanno mai avuto una vera esperienza di ricerca originale è più che legittimo. Vediamo ad esempio il caso, certo non unico, della Università della Magna Grecia (a Catanzaro), dove si offrono due diversi corsi di laurea quinquennale in Ingegneria, all'interno, a quel che sembra, della facoltà di Medicina. A chi saranno affidati gli insegnamenti di matematica di questi corsi di laurea visto che non vi risulta inquadrato nessun docente di ruolo di matematica? È ragionevole pensare che nelle vicinanze di Catanzaro ci siano dottori di ricerca in matematica, disposti per pochi euro, a insegnare analisi matematica, geometria, analisi numerica o probabilità a futuri ingegneri di alto livello? Situazioni analoghe esistono in molte università che, approfittando del fatto che i professori a contratto possono essere compensati con cifre irrisorie, hanno messo su corsi di laurea che possono non raggiungere gli standard minimi che si richiedono agli studi universitari. Questi corsi di laurea costituiscono un vero e proprio inganno a danno degli studenti, e dovrebbero essere censurati dal ministero. Ma come? Il ministro Mussi si era mosso decisamente in questa direzione stabilendo per decreto che almeno la metà dei corsi di insegnamento delle università siano coperti da personale docente di ruolo (professori o ricercatori universitari).
Purtroppo questo decreto non è ancora in vigore per le intervenute obiezioni della Corte dei Conti, che ha obiettato che simili disposizioni non devono applicarsi alle università non statali e in particolare alle «università telematiche» in quanto «le modalità di insegnamento si connotano per l'utilizzo esclusivo delle tecnologie informatiche». Non è chiaro quali poteri magici i giudici della Corte dei Conti (o i lobbysti che li hanno consigliati) attribuiscano alle «tecnologie informatiche». In realtà, un'università telematica ben funzionante, richiede un lavoro molto più intenso da parte dei suoi docenti, almeno per le discipline scientifiche. Lo sanno bene i docenti che, senza appartenere a università telematiche, si assumono spontaneamente il compito di seguire, correggere e stimolare il lavoro degli studenti impossibilitati a frequentare, utilizzando comunicazioni in forma elettronica. L'esperienza di questi docenti induce anche a pensare che per questo tipo di insegnamento sia necessaria una competenza e un'attenzione ai problemi degli studenti superiore a quella di un medio docente universitario. Ma in Italia, evidentemente, le università telematiche sono un'altra cosa e possono permettersi addirittura di non avere al proprio interno nemmeno un docente di ruolo. Invece di scaturire come in altri paesi da lunghe e laboriose esperienze di università «per corrispondenza» di altissimo livello, sono state create in fretta e furia con lo scopo apparente di riscuotere tasse universitarie minimizzando i costi dell'istruzione.
In ogni caso, il problema del livello universitario dell'insegnamento non si risolve solo imponendo che almeno la metà dei corsi sia affidata a professori di ruolo. È urgente una ricognizione accurata delle qualificazioni dei docenti a contratto. Questo dovrebbe essere uno dei primi compiti da assegnare alla costituenda Agenzia per la valutazione dell'università e della ricerca. I corsi di laurea i cui insegnamenti di base e caratterizzanti sono tenuti da personale che non ha raggiunto almeno le qualificazioni equivalenti a un dottorato di ricerca europeo non dovrebbero essere riconosciuti dal ministero, o dovrebbero essere segnalati agli studenti come carenti dei requisiti minimi che qualificano un'università. Le stesse o maggiori qualificazioni dovrebbero essere richieste ai docenti che seguono per via telematica il lavoro degli studenti iscritti alle università telematiche. Insomma il primo problema da affrontare per la valutazione delle università è quello di garantire gli utenti da offerte truffaldine o da pubblicità ingannevole. Il problema del ranking nazionale o internazionale delle università può essere lasciato alla fantasia e all'inventiva dei giornalisti e commentatori televisivi.


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