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Il Sole 24 ore: Le priorità: concorsi e "stato giuridico"

Con la nascita del nuovo Governo e l'entrata in vigore della legge Bassanini i ministeri della Pubblica istruzione e dell'Università tornano a essere uniti

24/06/2001
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di Alessandro Schiesaro

Con la nascita del nuovo Governo e l'entrata in vigore della legge Bassanini i ministeri della Pubblica istruzione e dell'Università tornano a essere uniti. Ma il contrasto che divide maggioranza e opposizione sui temi della scuola non dovrebbe estendersi alla politica universitaria. In particolare, si deve evitare che la ristrutturazione dei corsi di laurea venga rimessa in discussione o addirittura bloccata. Nelle linee essenziali, infatti, la riforma va nella direzione giusta, anche se molti aggiustamenti sono necessari. Meglio, dunque, concentrare gli sforzi sui problemi irrisolti. Vediamo i principali. Un problema di fondo è la diversificazione di obiettivi e modalità operative tra le istituzioni di alta specializzazione e ricerca e quelle dedicate alla formazione di base e alla diffusione di competenze sul territorio. In molti Paesi tali istituzioni sono chiaramente differenziate. In Italia, invece, la crescita del settore è avvenuta moltiplicando sedi locali modellate in piccolo su strutture e ambizioni delle università storiche: un metodo che non consente di tradurre la percentuale altissima di studenti che oggi si iscrivono all'università (circa il 44% della fascia di età) in un alto numero di laureati. Ed è questa la vera sfida del futuro prossimo, troppe volte oscurata dalla retorica dell'eccellenza. Un passaggio obbligato è l'abolizione del valore legale del titolo di studio, che la riforma in atto rende sempre più anacronistico, e che andrebbe sostituito da un sistema di accreditamento. Ma si deve anche favorire la nascita di istituti di formazione terziaria, pubblici e privati: per stimolare una maggiore concorrenza e per venire incontro con strumenti nuovi all'esigenza di una distribuzione capillare sul territorio, essenziale per rendere possibile la formazione continua. Un altro punto nodale è il ruolo del Governo centrale nella gestione del sistema universitario. Con la crescita dei margini di autonomia, al ministero spetta elaborare linee guida strategiche, "comprare" dagli atenei la formazione di un determinato numero di studenti, controllare la qualità dei processi formativi e la qualificazione dei laureati. Il passaggio da gestore a regolatore del sistema va accelerato. In questa logica vanno chiariti compiti e ambiti di influenza di Cun e Crui. Prima di chiedere nuovi finanziamenti, gli atenei devono spendere meglio i non pochi soldi in circolazione. A partire dai provvedimenti radicali del Governo Ciampi nel 1993, molto è stato fatto per razionalizzare la spesa e parametrare i finanziamenti sulle esigenze della domanda (gli studenti) e dell'offerta (le università). Restano però ampi margini di confusione e di spreco, che rendono politicamente debole la richiesta di fondi addizionali, basata sul confronto con la spesa procapite in Paesi comparabili. Le fondazioni bancarie stanno rapidamente diventando un generoso finanziatore delle università. Ma poiché sono quasi tutte localizzate nel Nord e nel Centro, questo crea una forte sperequazione. Non si tratta certo di limitare la loro propensione a investire nel futuro della ricerca e della formazione, ma di favorire una logica di coordinamento e di collaborazione a grandi progetti nazionali. Lo Stato potrebbe dar vita a fondazioni o endowments nazionali, dedicati a macroaree disciplinari o a specifici obiettivi (borse di studio in primis), cui potrebbero contribuire le fondazioni bancarie, altri soggetti privati e anche la lotteria. La legislatura appena conclusa lascia in eredità alla nuova il problema spinoso dello stato giuridico dei docenti universitari e della revisione dei meccanismi di concorso. Questo è il campo in cui un ministro "non del mestiere" come Letizia Moratti può meglio contrastare l'inevitabile propensione agli accordi trasversali che da sempre caratterizza la legislazione in materia. Per quanto riguarda i concorsi va senz'altro recuperata un'ottima proposta del ministero uscente, che abolisce il perverso meccanismo dell'idoneità e impone, come vuole il buon senso, che a ogni posto bandito corrisponda un solo vincitore. Al contempo va eliminata la distinzione altrettanto dannosa tra trasferimenti e concorsi, per favorire una vera mobilità interna basata sul merito. Bisogna poi riaprire - e non sarà facile - il dibattito sull'età pensionabile dei docenti. Il limite per ora fissato in sede di disegno di legge (70 anni invece degli attuali 72) è ancora troppo alto, se si vuole che il ricambio di idee e competenze nelle università avvenga a ritmi ragionevoli e che alcuni drammatici problemi di bilancio dovuto a esuberi di docenti possano trovare soluzione senza escludere generazioni intere di giovani studiosi. Una politica di esodi incentivati e attentamente distribuiti sarebbe il naturale complemento di questa riforma, senza la quale è inutile illudersi che l'università possa trasformarsi davvero, quali che siano le somme ad essa destinate. Uno sforzo deciso va fatto, infine, sul fronte della formazione a distanza, in cui l'Italia si è finora mossa con eccessiva lentezza, in larga misura per la resistenza di molti atenei a veder nascere un soggetto autonomo in questo campo: il solo che possa realmente rispondere, sul modello delle grandi università a distanza europee, alle crescenti esigenze del mercato. Questa resistenza difensiva è comprensibile, ma non giova agli interessi del Paese.