Università, i Nobel contro i giornali scientifici: trasformano le nostre scoperte in porridge -
Video su youtube di quattro medici premiati: contano i risultati non le citazioni
Gianna Fregonara
Singolare iniziativa della Fondazione per il Premio Nobel che nei giorni scorsi ha rilanciato sui social network, dal proprio profilo twitter e su Facebook, un video firmato da quattro vincitori del riconoscimento più ambito dagli scienziati in cui vengono attaccate senza troppi giri di parole le riviste scientifiche. Quello che i Nobel contestano è l’eccessiva importanza per la produzione scientifica contemporanea dell’«impact factor», cioè della pubblicazione su riviste quotate del loro lavoro scientifico. Una trafila che costringe - denunciano i quattro Nobel per la medicina Peter Doherty (1996), Bruce Beutler (2011), Joseph Goldstein (1985) e Paul Nurse (2001) - ad una «inutile perdita di tempo», che non ha nulla a che fare con il lavoro scientifico. Troppi passaggi, troppe condizioni, revisioni che costringono i ricercatori a «trasformare il loro lavoro in un porridge», attacca Doherty.
«I risultati sorprendenti»
Il video postato dai quattro Nobel con il titolo «Research counts not the journal» dieci giorni fa ha ricevuto numerosissimi commenti, molti favorevoli alla proposta di riportare la produzione scientifica e la sua valutazione su percorsi e modelli più complessi, e molti anche molto dubbiosi. La pubblicazione dei lavori scientifici è oggetto da qualche tempo di critiche e polemiche. All’inizio di giugno il quotidiano The Guardian ha pubblicato un articolo in cui riporta i dati di uno studio che dimostra come il 70 per cento dei ricercatori che hanno pubblicato su nature un loro studio hanno provato senza esito a rifare l’esperimento di un collega, attività che servirebbe a convalidarne il risultato scientifico. «L’impatto di queste riviste richiede sempre nuovi e sorprendenti risultati. Le falsificazioni riuscite vengono considerate prive di importanza e, come succede quasi nella metà dei casi - non pubblicate», scrive Julian Kirchherr.
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