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Unità-Tagliando tagliando, la cultura se ne va

Tagliando tagliando, la cultura se ne va FABIO BACCHINI * Cos'è l'autonomia universitaria? È una nozione interessante e rischiosa, una possibilità che presenta vantaggi e svantaggi. I...

08/02/2005
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l'Unità

Tagliando tagliando, la cultura se ne va

FABIO BACCHINI *

Cos'è l'autonomia universitaria? È una nozione interessante e rischiosa, una possibilità che presenta vantaggi e svantaggi. In Italia, siamo riusciti a prendere solo gli svantaggi, sbarazzandoci dei lati positivi. Non era un'impresa facile, ma siamo un popolo di santi di navigatori di eroi, e ce l'abbiamo fatta.
Un primo punto è la creazione di una concorrenza degli atenei sul mercato. Ciò avviene normalmente negli Stati Uniti, dove ogni Università aspira ad avere i professori migliori disponibili sulla piazza, perché l'alta qualità dei docenti è premiata da una maggiore richiesta dei propri laureati da parte delle aziende, e quindi da una maggiore richiesta di quell'ateneo da parte delle matricole e delle loro famiglie. La fama di Harvard è giustificata: non viene da glorie passate, ma da uno scintillio presente. Qui da noi, la concorrenza delle sedi universitarie non verte sulla qualità, ma sull'accomodamento. I docenti continuano a essere reclutati col vecchio sistema dell'anzianità e del portaborsismo, e quindi nessuna università è nelle condizioni di poter dire: "Guardate ai nostri professori, sono meglio degli altri". Le squadre dei docenti si equivalgono: dato che il criterio non è mai la bravura, il tasso di professori bravi è ovunque lo stesso, e corrisponde forse alla percentuale di persone in gamba presenti nella popolazione complessiva. Se invece guardate ai cognomi, scoprite una ricorrenza non casuale: molti docenti di oggi sono figli di quelli di ieri, e stanno già adoperandosi per piazzare il rampollo. Che l'accademicità sia ereditaria? In ogni caso, poiché la competizione sul mercato non può essere regolata da differenze nella qualità dei docenti, di fatto in Italia viene giocata sulla facilità con cui ci si laurea. "Venite da noi, e non avrete difficoltà con gli esami". Ecco, ci manca poco (e ciò che manca è solo il coraggio di esplicitare). Per essere valutata favorevolmente dal Ministero, una facoltà deve potersi fregiare di una bassa quota proporzionale di abbandoni dopo il primo anno di studi, e di un elevato rapporto fra laureati e iscritti. Ciò che conta, insomma, è che quanti più studenti possibile superino gli esami e giungano alla laurea. Le facoltà si adattano. Ai docenti viene suggerito di ridurre i programmi, di non essere severi agli esami, insomma di non inceppare un meccanismo che, quasi quasi, è di vendita rateale di un titolo di studio. I programmi d'esame di oggi sono, dal punto di vista del numero di pagine da studiare, corrispondenti a un decimo di quelli di un decennio fa. La memoria a lungo termine, la selezione dei dati rilevanti, la creazione di connessioni virtuose, di percorsi e di analogie, la capacità di guardare dall'alto una materia: tutte queste abilità non sono più esercitate, non sono più richieste. Si imparano a memoria cento pagine. Memoria a breve termine. Gli studenti dimenticano tutto in tre settimane. Ci hanno spiegato che i nostri laureati erano molto più preparati dei loro colleghi europei, e che dovevamo adeguarci. Siamo scesi al loro livello - ma probabilmente più giù. Ci siamo adeguati.
Ma l'autonomia significa almeno che le università sono libere di differenziare la propria offerta formativa, per dotarsi di profili distinti e permettere allo studente di avere una maggiore gamma di scelta? Dovrebbe essere così. Ma le recenti politiche finanziarie hanno azzoppato questa bella prospettiva. Come fa una facoltà a trasformarsi nella direzione voluta e annunciata sugli opuscoli, se il blocco delle assunzioni impedisce per due anni di seguito il reclutamento di nuovi docenti? Prendiamo il decreto legge 168 del 12 luglio 2004. Conosciuto col nome di "decreto taglia spese", esso ingiunge alle facoltà universitarie che "la spesa annua sostenuta nell'anno 2004 per missioni all'estero e spese di rappresentanza, relazioni pubbliche e convegni, deve essere non superiore alla spesa annua mediamente sostenuta negli anni dal 2001 al 2003, ridotta del 15 per cento". Sembra si tratti di una banale norma volta a impedire sprechi di denaro; ma è troppo rigida per conciliarsi con l'autonomia universitaria. Se io sono una facoltà neonata, è possibile che dal 2001 al 2003 io abbia avuto al mio servizio la metà dei docenti che ho oggi. Come mi si può imporre di spendere ancora meno di quello che ho speso in passato? Oppure, può darsi che io sia una facoltà che ha deciso di puntare forte sui rapporti internazionali. Gli studenti sanno che, iscrivendosi presso di me, potranno contare su un piano di studi che, d'intesa con tre altre facoltà straniere, li porterà a studiare in Francia, in Inghilterra e in Cile (supponiamo). Magari ho già i soldi che occorrono per far viaggiare i miei professori, che devono recarsi almeno un paio di volte nelle sedi universitarie consorziate con me. Può darsi che abbia risparmiato su altre voci di spesa, o che mi sia procurata i fondi vincendo un bando europeo. Ora, il decreto mi taglia le gambe. Questa non è autonomia. Se vuole che io possa dirmi autonomo, lo Stato non può impormi i suoi eccepibili criteri nella ripartizione delle spese. La somma da spendere dipende dalle disponibilità presenti nelle casse dello Stato, ma il come spenderla dovrebbe dipendere da me. Se stabilisco che è più importante firmare un protocollo con l'Università di San Pietroburgo che comprare nuove fotocopiatrici, come può il Ministero impedirmi di procedere e poi continuare a considerarmi "autonomo"? Sembro uno di quei quarantenni sottomessi che vanno in vacanza con mammina, e sotto l'ombrellone sentono che la genitrice dice di loro alle amiche: "Ormai è grande, fa di testa sua".
Questo decreto impone che, per i contatti internazionali, si debba spendere sempre meno. I nostri docenti saranno sempre meno conosciuti all'estero. Essi saranno sempre più rassegnati: "A che serve che io fatichi a sviluppare quell'idea per ricavarne un paper degno di essere proposto alla comunità scientifica, se poi non posso viaggiare per presentarlo al convegno internazionale dove ho avuto l'onore di essere ammesso, ma dove il decreto 168 mi impedisce di andare perché abbiamo già toccato il tetto di spesa previsto - nonostante, si badi bene, io abbia i fondi necessari per andare?". Già sentiamo le voci dei presidi: "Mi raccomando, non vincete bandi per fondi di ricerca europei, altrimenti poi ci tocca viaggiare e il decreto 168 lo impedisce".
È evidente che una facoltà universitaria sana non può fare a meno di organizzare convegni, di invitare professori stranieri, di confrontarsi col resto del mondo. Non è neanche questione di autonomia, qui: è questione di sopravvivenza culturale. Ma se si ha una visione diversa delle università, e le si concepisce come aziende che vendono diplomi a clienti che li pagano, allora è vero che i convegni non servono, e neanche i viaggi all'estero. I professori devono solo compilare verbali (che in fondo sono fatture) e consegnare all'acquirente il prodotto (far superare l'esame). "Autonomia", in questa prospettiva, è una parola vuota. Oppure, meglio, significa che chi non ha abbastanza iscritti chiude bottega, che il mercato detta legge, e che per il resto bisogna obbedire al Ministero. La cultura? Viene tagliata del 15 per cento ogni anno. Iterando la procedura, prima o poi si esaurirà. Almeno le previsioni del Ministero autorizzano a sperarlo.

* Università degli Studi di Sassari


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