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Unità-Quando vince la radicalità, quando vince l'unità. Il movimento parla alla politica

Quando vince la radicalità, quando vince l'unità. Il movimento parla alla politica di red Luca Casarini, il più radicale dei leader dei no-global, dice che adesso il movimento deve preparasi a...

16/02/2003
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l'Unità

Quando vince la radicalità, quando vince l'unità. Il movimento parla alla politica
di red

Luca Casarini, il più radicale dei leader dei no-global, dice che adesso il movimento deve preparasi ad affrontare due possibili scenari molto diversi. Difficilissimi. Il primo è la guerra. Scenario terribile, mortifero, quasi impraticabile per la politica. L'altro è la pace: scenario imprevisto, complicato, che segnerebbe un cambio d'epoca nella storia della politica. Perché non era mai successo che dalla cooperazione tra movimenti di massa (radicali) e cancellerie - e diplomazie, e governi, e Stati - nascesse un risultato politico così clamoroso come la sconfitta della politica (economica, estera e militare) della più grande potenza di tutti i tempi e cioè degli Stati Uniti. Oggi sta accadendo questo, dice Casarini. Se la guerra non ci sarà noi dobbiamo sapere che il merito va diviso in due tra il movimento no-global e una parte minoritaria del potere capitalistico mondiale. C'è un conflitto tra interessi diversi all'interno dello stesso sistema liberista. Gli interessi di Francia, Germania, Russia e altri sono in contrasto con quelli di Washington. Questo conflitto non era sufficiente a fermare la guerra. Neanche la forza dirompente del movimento pacifista era sufficiente. Non è da escludere che dalla combinazione di elementi politici così diversi possa invece nascere una cosa che fa inceppare la macchina americana. Anche se la guerra ci sarà, comunque l'America pagherà un prezzo molto superiore a quello che aveva messo in preventivo. Piero Bernocchi, capo dei Cobas e leader del movimento, aggiunge che un prezzo molto alto pagheranno anche gli alleati degli Usa. Non è un caso se le manifestazioni più grandi ieri si sono svolte nei tre paesi "vassalli": Gran Bretagna, Italia e Spagna.

Che vuol dire preparasi alla pace e preparasi alla guerra? Vuol dire che il pacifismo deve continuare a crescere, dice Casarini. Deve rafforzare la sua radicalità e la sua estensione di massa. Fenomeno del tutto inedito. Non si conoscono in politologia movimenti di massa così grandi e al tempo stesso così radicali. E deve rafforzare le sue radici politiche. Che vivono nella lotta al liberismo. Pacifismo come lotta al liberismo, lotta all'ingiustizia sociale, alla povertà, alle logiche di morte (per fame, o per malattia, o per sete, o per guerra) che son organiche al capitalismo moderno. Così il pacifismo che ieri ha vinto in piazza la più grande delle sue battaglie di questo secolo può affrontare la nuova fase.

La data del 15 febbraio ormai sarà difficile dimenticarla, no? Il movimento ha avuto un successo politico addirittura imprevedibile. Perché? Non solo per quei centodiecimilioni di manifestanti che costituiscono un'originalità assoluta nella storia politica moderna (e anche antica). Ma perché il movimento no-global, trattato finora con un qualche rispetto ma anche con molta sufficienza dall'establishment politico mondiale (e da tutta la stampa), ha assunto la guida della sinistra sul piano della politica internazionale. Ha imposto i suoi temi - dice Bernocchi - ha dettato l'agenda, ha messo sul piatto la sua forza di mobilitazione e di consenso (di influenza ideale) che è una forza davvero incontenibile. Più grande di quella tradizionale dei partiti. Vittorio Agnoletto (uno dei leader più importanti del movimento italiano, e anche uno dei più moderati, anche se a lui questa parola sicuramente non piace) parte proprio da qui per riflettere sul futuro immediato. Dice che ora il problema è quello di tenere insieme le due grandi leve che hanno rappresentato la forza di questo movimento. E cioè la sua capacità di aumentare e moltiplicare il consenso di massa (e di coinvolgere settori sempre più grandi di popolo nella sua battaglia), e la sua radicalità. Il rischio adesso e che queste due leve si allontanino. Divergano. Da una parte un'avanguardia che narcisisticamente si culla nella sua radicalità, si compiace, scandalizza, e dall'altra un consenso di massa che si allontana e si attesta su posizioni moderate. Assumere la guida della sinistra nel campo della pace e della lotta al liberismo (che molti commentatori, per mancanza forse di strumenti più sofisticati di analisi, traducono con "antiamericanismo") per Agnoletto vuol dire condurre questa operazione "unitaria". Il che comporta un impegno: misurare bene le forme di lotta. Tutte sono legittime, ma alcune rischiamo di allontanare il consenso di massa, e questo è dannoso. Bernocchi insieme alla Fiom sta lavorando sull'idea di uno sciopero generale europeo se gli americani faranno la guerra. E si profila un'alleanza tra i Cobas e i sindacati ufficiali. I Cobas stavolta non vogliono l'esclusiva dello sciopero, vogliono lo sciopero di massa.

Il Movimento ha già iniziato a muoversi nel suo nuovo ruolo "egemonico". Ieri ha assunto un'iniziativa di tipo parlamentare. E cioè si è rivolto direttamente a deputati e senatori del centro-sinistra e ha chiesto loro di votare in Parlamento una mozione che non solo condanni la guerra ma neghi agli americani le basi italiane, il sorvolo dei nostri cieli e l'uso delle infrastrutture promesse dal ministro della Difesa. Sarà difficile per l'Ulivo aggirare questa questione. Un corteo di tre milioni di persone fa un certo effetto a tutti. E chi ha ascoltato almeno qualcuno dei discorsi pronunciati sabato dal palco da una ventina di "testimoni" pacifisti di varie parti del mondo (America e Iraq inclusi) si sarà reso conto che tra gli argomenti del movimento pacifista e le discussioni in alcuni partiti dell'Ulivo c'è una distanza troppo grande. Va colmata. Sabato a nessuno veniva in mente di distinguere tra guerra giusta e ingiusta. Né tra operazioni militari autorizzate dall'Onu e iniziativa unilaterale. E logico che fosse così: si può forse chiedere a un movimento di scendere in piazza per proporre che la guerra si faccia solo se gli americani trovano la maggioranza in Consiglio di sicurezza? Non si può. E allora cosa devono fare i partiti, che hanno le loro responsabilità (diverse da quelle dei movimenti) e devono porsi il problema di una eventuale - e grave - delegittimazione dell'Onu? Devono rovesciare la questione. Il loro compito non è quello di appoggiare la guerra solo se la farà l'Onu, ma di rifiutare comunque la guerra e poi adoperarsi perché anche l'Onu la rifiuti. Il principio è la scelta tra pace e guerra, lo strumento è l'Onu. Bisogna cercare di salvare principio e strumento, ma tutti sanno che i principi vengono prima. Agnoletto dice che la giornata della pace di ieri ha ottenuto questo grande risultato: di saldare etica e politica. Non è anche questa una grande novità? Ed è su questa novità - anche teorica, dottrinale - che nasce una nuova unità, sempre più forte, tra la parte cristiana dei no-global e la parte laica. Ormai la distinzione è quasi inesistente, l'intreccio è completo. E' passato molto tempo da Seattle e da Genova.

E' passato molto tempo e in questo tempo è avvenuto anche un altro fatto: una intera generazione si è ritrovata su un senso comune politico che appena tre anni fa era praticamente privo di rappresentanza e che è in contrasto netto con il senso comune dominante degli ultimi 15 anni. Questo fatto pone problemi enormi a tutto il mondo politico. Nessuna idea politica, nessun partito, nessuna alleanza ha prospettive vincenti se si contrappone alle nuove generazioni. Allora bisognerà rivedere analisi, strategie, proposte, valori. Non è un compito da niente quello che si pone davanti alla sinistra. Non basta correggere: bisogna ripensare. Cioè, innanzitutto, ricominciare a pensare: dare al pensiero e alla ricerca politica una dignità e un'importanza che non avevano più dagli anni sessanta.


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