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Unità-Non tutto è negoziabile-di Franco Bassanini

.2003 Non tutto è negoziabile di Franco Bassanini Una parte assai rilevante del messaggio di fine anno del Presidente Ciampi concerne il tema della riforma e del rinnovamento delle istituzioni....

03/01/2003
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l'Unità

.2003
Non tutto è negoziabile
di Franco Bassanini

Una parte assai rilevante del messaggio di fine anno del Presidente Ciampi concerne il tema della riforma e del rinnovamento delle istituzioni. Alla questione istituzionale Ciampi ha dedicato quest'anno un'attenzione del tutto speciale. Una indicazione incoraggiante, per chi ritiene che sia venuto il tempo di mettere fine ad una troppo lunga transizione politico-istituzionale, e di dare al nostro Paese le regole, le istituzioni e le garanzie di una grande democrazia moderna. Una attenzione forse eccessiva, per chi ritiene invece che la riapertura del dibattito sulle istituzioni rappresenti principalmente un diversivo, volto a distrarre l'attenzione della opinione pubblica dagli insuccessi delle politiche governative, e dai problemi della finanza pubblica, del declino e della perdita di competitività del Paese, della crisi del nostro sistema industriale.
Né l'una né l'altra di queste due opposte valutazioni colgono tuttavia il senso profondo del messaggio di Ciampi sulla questione istituzionale. A me pare che, nel suo nucleo essenziale, esso inviti invece tutti, maggioranza e opposizione, centrodestra e centrosinistra, a riflettere sulla esistenza di principi e valori non negoziabili, caratterizzanti la struttura o l'essenza di ogni sistema democratico. "Principi intangibili, che non ammettono compromessi": un riferimento, neppure tanto indiretto, a quei principi supremi dell'ordinamento (di ogni ordinamento democratico) che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, non possono essere abrogati o derogati neppure da una legge di revisione costituzionale.
Voglio essere esplicito: nel momento in cui si apre - o almeno così sembra - una nuova stagione di dibattiti e (forse) di riforme istituzionali, questa riflessione si impone anche nell'ambito del centrosinistra. Sbaglierebbe - pare a me - chi ritenesse che nell'Ulivo vi è chiara consapevolezza su ciò che è negoziabile e su ciò che non lo è. Temo che sia vero il contrario. E dunque penso che una riflessione collettiva e un dibattito aperto sul punto siano necessari, e urgenti, anche nell'ambito dell'Ulivo.

Penso anche che un preliminare chiarimento su ciò che è e ciò che non è negoziabile potrebbe consentire, forse, di superare la contrapposizione che già si delinea. La contrapposizione tra chi vuole sedersi al tavolo delle riforme e chi ne diffida.
In verità, a me pare che nessuna opposizione consapevole delle sue responsabilità possa sottrarsi pregiudizialmente ad un confronto con la maggioranza sulle riforme necessarie per rendere più forti e più efficaci le istituzioni democratiche, quando, come sicuramente è in Italia, di ciò vi è necessità. Se non altro, per evitare di offrire alla maggioranza un pretesto per procedere da sola sulla strada delle riforme costituzionali. Ma una cosa è aprire un confronto senza limiti e senza confini, un'altra definire un quadro certo di principi e valori fondamentali; principi e valori da assumere come parametro di valutazione della coerenza democratica delle soluzioni che saranno proposte al tavolo del confronto.
* * *
Nel messaggio di Ciampi, il primo di questi principi concerne la forma di governo: "Il buongoverno trae grande beneficio dal pluralismo delle istituzioni. Quale che sia la forma di governo, in democrazia pesi e contrappesi alimentano un sano dibattito politico. Questo ha bisogno di istituzioni di garanzia, neutrali rispetto alla contrapposizione dei partiti e al confronto parlamentare". Qualcuno vi ha visto una netta critica al modello presidenziale.
Ma, in realtà, il problema posto da Ciampi è ben più radicale, e precede e sovrasta la scelta tra i vari modelli di forma di governo. Esso riguarda i connotati strutturali che consentono di definire una forma di governo, quale che essa sia, come effettivamente democratica. Partire da qui, nella riflessione sulle forme di governo, mette in crisi l'approccio oggi più diffuso, anche nella sinistra, o nel centrosinistra. Questo approccio muove dall'accoglimento e dalla sostanziale condivisione, più o meno acritica, di due assai diffusi luoghi comuni: la convinzione - ovviamente, non priva di qualche ragione - che l'ingegneria costituzionale debba fare i conti con due tendenze sociologiche oggi dominanti, la personalizzazione della politica e la sua spettacolarizzazione mediatica; e l'idea che stabilità, governabilità, ed efficacia nella realizzazione del programma approvato dagli elettori siano in realtà gli unici, o comunque i principali criteri o valori per valutare la bontà dell'una o dell'altra forma di governo.
Ne deriva la tendenza ad impostare la riflessione sulla forma di governo muovendo non già da un confronto fra i vari modelli così come essi sono, come sono venuti configurandosi nell'esperienza costituzionale delle grandi democrazie. Ma a concentrare l'attenzione su alcune specifiche varianti di ciascun modello che, anche a rischio di insostenibili contraddizioni e incoerenze strutturali, convergono su un elemento comune: la concentrazione su un uomo solo, purché legittimato dall'investitura elettorale, di tutti i poteri, o di gran parte di essi. Ma, così, si rischia di rendere incerto il confine tra forme di governo democratiche e forme di governo cesariste, bonapartiste o peroniste.
Non stupisce, da questo punto di vista, il pragmatismo (o l'eclettismo) proclamato da Berlusconi nella sua conferenza-stampa del 30 dicembre: tra presidenzialismo, semipresidenzialismo e premierato "forte" le differenze possono essere minime, se in fondo rappresentano varianti della medesima trama. Anzi, un premier "forte" può perfino avere maggiori poteri del Presidente degli Stati Uniti: il quale, dopo tutto, non può ottenere lo scioglimento delle Camere, non può mettere la fiducia sulle leggi, non controlla la formazione della legge di bilancio, deve attendere l'advice and consent del Senato per nominare ministri, ambasciatori e direttori delle amministrazioni e agenzie; e non di rado si trova a fare i conti con un Congresso ostile, nelle frequenti situazioni di divided government.
Non a caso, dunque, nel parlare di riforma della forma di governo, Ciampi è invece partito di qui: non ha enunciato quale primo obiettivo il rafforzamento dell'esecutivo e dei poteri del Capo del Governo; al contrario, "quale che sia la forma di governo" prescelta, ha sottolineato l'esigenza di salvaguardare il pluralismo delle istituzioni, di prevedere adeguati pesi e contrappesi: perché non basta la legittimità elettorale, per rendere democratica una forma di governo, se questa finisce col concentrare tutti i poteri (o comunque troppi poteri) in un uomo solo, ancorché democraticamente eletto. E neppure è vero che la concentrazione dei poteri nelle mani del Capo è espressione di un principio di sociologia dell'organizzazione, praticato in tutte le aziende private: esso infatti rispecchia, caso mai, il modello delle piccole imprese, o delle imprese a conduzione familiare, gestite direttamente dal proprietario. Mentre nelle grandi imprese, non è rara la suddivisione delle deleghe tra più amministratori.
C'è accordo su questo principio non negoziabile? C'è accordo tra maggioranza e opposizione, o, almeno, c'è nell'Ulivo?
Se accordo c'è, allora occorre discutere non solo del rafforzamento dell'esecutivo e del suo Capo (premier, cancelliere o presidente), ma anche e prima di tutto - come puntualmente ha ricordato Ciampi - dei checks and balances, delle garanzie istituzionali. Dunque non solo degli strumenti e dei poteri della maggioranza eletta, ma anche dei suoi limiti. Consapevoli del fatto che sul primo versante molto si è già fatto in questi anni, a partire dalla legge sulla elezione diretta dei sindaci. Sul secondo, invece, quasi nulla. Come ha detto Ciampi "per assicurare stabilità all'esecutivo, si è dato vita, quasi dieci anni fa, alla democrazia dell'alternanza, adottando il sistema elettorale maggioritario. Ma non è stato completato il cambiamento adeguando le garanzie istituzionali".
Il dibattito sulla forma di governo dovrebbe dunque vertere, in primo luogo, sulle regole e sulle garanzie proprie di una moderna democrazia dell'alternanza, o maggioritaria. Nella quale, la maggioranza parlamentare e il governo scelti dagli elettori devono disporre degli strumenti necessari per governare. Ma entro limiti precisi ed invalicabili, necessari per garantire l'intangibilità dei diritti e delle libertà dei cittadini e la effettività della competizione democratica anche, e in primo luogo, nei confronti delle possibili prevaricazioni della maggioranza. È uno dei pilastri centrali della elaborazione culturale del costituzionalismo democratico; e lo è, in particolare, in quella del suo filone liberaldemocratico, da Montesquieu in poi.
* * *
Accanto al rafforzamento dell'esecutivo, l'agenda del confronto non può dunque non comprendere, su un piano (quanto meno) di pari dignità e di sicura contestualità, il tema dell'assetto e del rafforzamento delle garanzie democratiche e istituzionali: i poteri del Parlamento, lo statuto dell'opposizione, il ruolo e i poteri di garanzia del Capo dello Stato (dove non coincide col Capo del Governo), il pluralismo e la libertà dell'informazione, i poteri e l'indipendenza della magistratura (e della Corte Costituzionale) , il ruolo e l'autonomia delle autorità indipendenti di garanzia e di regolazione. Questioni quasi tutte accennate da Ciampi, pur nella inevitabile sinteticità del suo messaggio di fine anno.

Non è, peraltro, soltanto una questione di agenda, o di indice delle questioni da affrontare. E' ovvio che occorrerà verificare anche che le soluzioni proposte per il rafforzamento dell'esecutivo non contraddicano i principi e i valori non negoziabili che garantiscono la democraticità del sistema costituzionale; e non finiscano per indebolire o vanificare l'efficacia delle garanzie istituzionali, magari invocando l'usbergo della sovranità parlamentare espressa attraverso il voto degli elettori (come non di rado si è fatto nei regimi autoritari di stampo fascista, comunista o peronista).

Questa verifica appare più facile, se ci si attiene a modelli consolidati dall'esperienza delle grandi democrazie moderne (o liberali, nell'accezione anglosassone del termine). Ma occorre, in proposito, evitare i pericoli del bricolage istituzionale; o - come Giovanni Sartori ha ammonito qualche giorno fa - il rischio di pasticci derivanti dalla commistione incoerente di istituti importati da esperienze diverse e tra loro non facilmente componibili.
E così: quando la componente più forte dell'attuale maggioranza e lo stesso Berlusconi esprimono una preferenza per il modello semipresidenziale, ma aggiungono che occorrerebbe configurarlo in modo da evitare il rischio della coabitazione, fingono di ignorare che la possibile coabitazione è un elemento essenziale del sistema di contrappesi democratici propri della Costituzione della Quinta Repubblica francese: la quale affida al corpo elettorale la facoltà di decidere se e quando bilanciare il ruolo e i poteri riconosciuti al Presidente della Repubblica eletto dai cittadini, affiancandogli un'Assemblea nazionale (e di conseguenza un Primo Ministro e un Governo) espressione di un diverso orientamento politico. L'eliminazione di questo contrappeso produrrebbe, probabilmente, lo scivolamento del modello semipresidenziale verso il presidenzialismo; ma non verso il presidenzialismo nordamericano, ma verso una forma di presidenzialismo non bilanciato, del tipo di quelle un tempo prevalenti in America Latina.
La stessa obiezione incontra l'ipotesi, mai del tutto abbandonata, di una soluzione presidenziale configurata in modo da evitare i problemi e le difficoltà proprie delle fasi di divided government e da assegnare al Presidente e al suo governo una maggiore influenza sulla formazione delle leggi, sul modello europeo. Ma il sistema presidenziale americano deve essere annoverato tra le forme di governo sicuramente democratiche proprio perché prevede e comprende questo ed altri checks and balances, e non già nonostante l'esistenza di questi limiti al potere presidenziale. Non è un caso, d'altronde, se il modello americano non è mai stato sperimentato in nessuna delle grandi democrazie europee. Esso appare infatti difficilmente riproducibile dove sistemi politici e partiti più strutturati di quelli statunitensi renderebbero difficile la governabilità nelle fasi di divided government; e, per converso, renderebbero eccessivo il potere presidenziale nelle fasi nelle quali il partito del Presidente ha la maggioranza in entrambe le Camere. Mancherebbe infatti la fluidità delle posizioni e delle maggioranze congressuali che consente al Presidente di negoziare l'approvazione di provvedimenti essenziali anche con un Congresso politicamente ostile; e che lo costringe comunque a fare i conti con il Congresso anche nelle legislature nelle quali esso gli è politicamente favorevole.
Per parte mia, continuo a pensare che non sia casuale il fatto che tutte le grandi democrazie europee (con la sola eccezione della Francia) abbiano scelto il modello parlamentare (o semiparlamentare, come qualcuno preferisce dire), per lo più adottando varianti che valgano a rafforzare la stabilità e la coesione delle maggioranze e dei governi, e dunque a evitare o ridimensionare i pericoli e i difetti propri delle varianti assembleari del modello in questione. Vi sono evidentemente ragioni profonde, che la migliore dottrina ha studiato, e che spiegano questa impressionante evidenza statistica. Esse risiedono nella storia, nelle tradizioni culturali e amministrative, nella struttura dei sistemi politici europei. E sono oggi rafforzate dalla comune appartenenza all'Unione europea e al sistema delle forze politiche europee.

Ma anche nel seguire questa indicazione, occorre evitare pasticciati bricolage. Occorre evitare di spingere la ricerca di strumenti di rafforzamento della stabilità e dei poteri dell'esecutivo e del suo Capo oltre i limiti conosciuti da questi modelli. E occorre evitare di progettare soluzioni incompatibili con l'esigenza di costruire, anche in tal caso, un equilibrato sistema di pesi e contrappesi, di strumenti per governare ma anche di garanzie istituzionali contro l'onnipotenza della maggioranza pro tempore.

Non sono sicuro che questa avvertenza sia ugualmente sentita, neppure nelle fila dell'Ulivo. Per essere ancora più chiaro: non nego la possibilità di ricavare indicazioni utili tanto dalla variante britannica (il governo del primo ministro) quanto dalla variante tedesca (cancellierato). Si tratta, per l'appunto, più di varianti di un unico modello, che non di modelli distinti e contrapposti. Penso tuttavia che non si debba alterare l'equilibrio di quel modello introducendo elementi propri di altri modelli non compatibili con esso, come il modello semipresidenziale, quello presidenziale e il sistema dell'elezione diretta del primo ministro sperimentato in Israele per qualche anno.
E così: si dovrebbe, pare a me, concordare senza difficoltà sulla introduzione nel nostro ordinamento costituzionale di istituti che si rinvengono, nella sostanza, tanto nel sistema tedesco che in quello britannico: come l'attribuzione al Presidente del Consiglio (o Primo Ministro, o Cancelliere) del potere di nominare e revocare i ministri; e il divieto di sfiduciarlo o comunque di rimuoverlo dall'incarico senza procedere contestualmente alla scelta del suo successore (divieto di "crisi al buio"). Ma si dovrebbe altrettanto chiaramente escludere l'introduzione di istituti che non si rinvengono in nessuna delle due varianti, britannica e tedesca.
Né nel governo britannico del primo ministro, né nel cancellierato tedesco il nome del candidato alla guida del governo è scritto sulla scheda elettorale. Certo, esso è pubblicamente e previamente indicato da ciascun partito e da ciascuna coalizione. Ma tra una previa indicazione, e la sottoposizione al voto sulla scheda ci sono differenze rilevanti, che la c.d. "bozza Fisichella" (frutto del lavoro collegiale svolto nel 1994 da Urbani, Fisichella, Cesare Salvi e da chi scrive) aveva ben analizzato. Nel primo caso, l'elettore è chiamato a votare (oltreché il deputato o senatore del suo collegio) un programma, uno schieramento politico (con i suoi principi e valori), una squadra di governo, e , certo, anche il capo di questa squadra. Ma l'elemento di personalizzazione della scelta elettorale è bilanciato e non esclusivo. Nel secondo caso, ignoto all'esperienza britannica e tedesca, l'elettore è indotto a ragionare nei termini del modello presidenziale, determinando nei meccanismi della legittimazione una torsione personalistica difficilmente armonizzabile col modello parlamentare.
Analogamente: nel sistema tedesco e in quello britannico non è precluso al Parlamento il potere di sostituire il Primo ministro o il Cancelliere nel corso della legislatura. In entrambi i casi, il sistema prevede meccanismi contro le "crisi al buio", ma non esclude la sostituzione del leader della maggioranza. Si tratta, a ben vedere, di un dato essenziale alla forma di governo parlamentare: nel quale il Primo ministro e il suo Governo hanno il vantaggio sicuro di disporre di una maggioranza nell'organo legislativo, ma devono comunque fare i conti con essa, ed evitare di mettere a rischio le basi del loro consenso, che stanno nella fiducia della maggioranza degli eletti del popolo. La leadership è in tal caso conquistata ogni giorno sul campo, non garantita dalla minaccia dello scioglimento delle Camere (rectius: del Bundestag o della Camera dei Comuni).

Si potrebbe continuare: ma bastano questi esempi per dimostrare che alcune delle proposte di "premierato" oggi sul tappeto assomigliano a patchwork tra modelli costituzionali diversi e incompatili. È il caso del modello che va sotto il nome di "sindaco d'Italia": esso appare il frutto di una sorta di commistione tra governo parlamentare del primo ministro e governo presidenziale; una commistione che non presenta pericoli e problemi ove applicata ad istituzioni (le amministrazioni comunali) dotate di poteri essenzialmente amministrativi e regolamentari e preposte al governo di comunità ristrette e relativamente coese (dove il Capo dell' istituzione può in effetti stabilire un rapporto diretto e non mediato con una buona parte degli elettori); ma che, esportata al livello di una grande democrazia, altera irrimediabilmente l'equilibrio dei pesi e dei contrappesi propri del modello parlamentare.
* * *
Tra i principi non negoziabili, il messaggio del Presidente Ciampi ha collocato anche il pluralismo dell'informazione, e la struttura del sistema federale. Del pluralismo e della libertà dell'informazione, già oggetto del messaggio presidenziale alle Camere della scorsa estate, colpisce qui l'esplicita indicazione della loro valenza istituzionale. Si tratta di condizioni essenziali per "l'equilibrio nelle relazioni tra le parti politiche, nel libero giuoco delle opinioni,' e per generare quella distensione" e quella reciproca legittimazione fra tutte le forze politiche "di cui tutti avvertiamo il bisogno". In effetti, nessun rafforzamento dell'esecutivo e dei suoi poteri, fondato e motivato sulla base della legittimazione democratica proveniente dal successo nella competizione elettorale, può essere neppure ipotizzato se la libera determinazione delle scelte degli elettori è influenzata e alterata da un assetto non pluralistico del sistema dell'informazione. "Elezioni libere e sincere, determinate dalle libere scelte di cittadini correttamente informati" sono, secondo il leit motiv dei costituzionalisti americani, il fondamento di ogni sistema democratico: e a maggior ragione dei sistemi che tendono ad esaltare la legittimazione elettorale.

Il messaggio di Ciampi non cita espressamente, in questo contesto, la legge sul conflitto di interessi. Ma non mi pare dubbio che essa debba accompagnare una nuova ed efficace legge sul pluralismo e sulla libertà dell'informazione. In entrambi i casi, a ben vedere, il principio, anzi la condizione non negoziabile, non riguarda solo l'adozione di provvedimenti legislativi, ma la loro effettiva implementazione: e quindi la realizzazione nei fatti di condizioni di effettivo pluralismo nel sistema dei media, la conseguente effettiva tutela del diritto all'informazione e della libertà dell'informazione, la assoluta separazione fra attività di governo (o, più in generale, fra ruoli politici) e proprietà dei mezzi di comunicazione. La questione non riguarda dunque l'approvazione dei disegni di legge Gasparri e Frattini, ma la loro radicale riscrittura.

Infine, la riforma federale. "Stiamo sviluppando - ha detto Ciampi - uno stato democratico ispirato ai principi del federalismo solidale. Esso ha radici nella nostra storia comunale, una storia che non ha l'eguale, e nella pluralità degli stati da cui è nata l'Italia unita' Si può essere aperti a ogni innovazione, purché resti fermo il principio di solidarietà, e non si metta a rischio, in nessun modo, l'unità nazionale". La indicazione è precisa. Ciampi non contesta la riforma federale, anzi invita ad essere aperti ad una innovazione che è coerente con la storia d'Italia, con l'antica tradizione di libertà e di autogoverno dei Comuni, e con la pluralità di Stati che, in epoca tutto sommato ancora recente, hanno dato vita allo Stato untario. Ma anche in tal caso, Ciampi indica principi e valori non negoziabili, che devono essere salvaguardati e realizzati, nella costruzione e nella implementazione della riforma federale: l'unità nazionale, e la solidarietà, e dunque l'uguaglianza degli italiani nell'esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali..

Affermazioni scontate? Non proprio. Da una parte, la scelta per la forma di Stato federale è difesa contro i suoi detrattori, ed in specie contro chi la giudica estranea alla tradizione e alla cultura italiana: l'Italia non ha - ricorda Ciampi - una plurisecolare tradizione unitaria, che affonda le sue radici nel Medioevo, come hanno invece la Francia e l'Inghilterra. Dall'altra, vi sono un accenno molto significativo alle peculiarità del modello italiano, basato sulla forte tradizione municipale, e un monito contro il centralismo regionale.

Ma soprattutto vi è la riaffermazione che la riforma federale deve essere uno strumento per rafforzare l'unità d'Italia e la solidarietà tra i suoi cittadini e le sue comunità, nella valorizzazione delle diversità e dell'autogoverno di ciascuna di esse. Uno strumento per unire, non per separare. Nella a che fare dunque con i progetti di devolution, con il riconoscimento alle Regioni di poteri legislativi esclusivi: riconoscimento certamente incompatibile con il modello del federalismo solidale, riaffermato da Ciampi (e, per vero, anche da Pera e Casini); ma, a ben vedere, difficilmente compatibile anche con l'esperienza del federalismo americano, che non ha mai negato alle istituzioni federali i poteri per intervenire a tutela di esigenze unitarie: dal New Deal di F.D.Roosevelt, ai programmi federali di assistenza sanitaria (Medicare e Medicaid), che tutti intervengono in materie di competenza propria degli Stati.

Si tratta di affermazioni che vedono l'intero centrosinistra concorde e compatto. Ma è il caso di ribadire il loro valore di condizioni pregiudiziali, di principi inderogabili, e, appunto, non negoziabili: "principi intangibili, che non ammettono compromessi. Ancor prima che nella Costituzione, essi sono scolpiti nel marmo del Vittoriano, e in modo ancor più indelebile nel cuore di tutti gli Italiani". E anche per dire chiaro e netto, dunque, che il centrosinistra non potrà accettare di metterli da parte, e di rinviarne l'attuazione a tempi migliori.

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