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Unità: Apocalisse ricerca, la destra cancella il futuro

Fabio Mussi, ex ministro dell’Università incontra all’Unità un ricercatore, un docente e una studentessa. Tema: la “controriforma” Gelmini, l’onda della protesta, i gravissimi pericoli per la ricerca

01/11/2008
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l'Unità

Fabio Mussi, che giudizio dà della manifestazione di giovedì sulla scuola?
«Mi sono fatto da manifestante il corteo. Era tanto tempo che non vedevo una cosa così. Questo è un movimento che è salito dalla società italiana, che coinvolge studenti, ricercatori, maestri, personale non docente della scuola, famiglie. L’onda è una metafora assolutamente appropriata. È un movimento che chiede più scuola, più sapere, più scienza. Si muove su una frontiera molto avanzata della civiltà umana. Ed è un buon segno perché vuol dire che questa non è una società normalizzata. In genere Berlusconi si arrabbia quando ci sono fischi e non applausi. Ma tanti fischi così non se li aspettava. La scuola è un nervo scoperto, e non accorgersene è un sintomo dell’incapacità di questo governo a comprendere il Paese. Uno si avvolge nella rete dorata della rappresentazione che gli viene di rimbalzo dalle sue televisioni, si immagina che il mondo sia come lui lo crea. E invece è diverso. E lì non capisce più. Da qualche giorno è cambiata la faccia del capo del governo. Si vede che è scosso. Le reazioni sono scomposte».
Quali conseguenze avrà la legge 133 sull’università?
«Dobbiamo essere sinceri. È un pezzo che i governi italiani non hanno scuola, università e ricerca come priorità. Compreso il governo di cui ho fatto parte. Naturalmente quelli che sono attualmente in carica, se non saranno fermati faranno un disastro irreversibile. Mentre, francamente, noi disastri irreversibili non ne abbiamo combinati».
Marco Bruni, docente all’istituto di Cosmologia e gravitazione di Portsmouth, Gran Bretagna, chiede via e-mail perché il governo Prodi abbia dato 700 milioni alla ricerca privata invece che a quella pubblica.
«Il governo Prodi ha investito sulla ricerca 160 milioni il primo anno e 300 quello successivo: io ho protestato perché erano cifre inadeguate per recuperare il ritardo che avevamo accumulato. Certo, avevamo promesso di fare meglio. Tuttavia c’è stato un «più». I fondi di cui parla Bruni facevano parte del programma “Industria 2015”, volto al sostegno dell’innovazione e della ricerca nel sistema economico e delle imprese. Ma la ricerca pubblica non è stata definanziata».
Un’altra critica che emerge dalle e-mail riguarda i temi del nepotismo, dei concorsi, della meritocrazia.
«Il regolamento sui concorsi universitari, da me disegnato, prevedeva innanzitutto un piano straordinario di assunzioni di ricercatori: 20-40-80 milioni in 3 anni, in cofinanziamento, per 4500 nuovi ricercatori. Ho fermato i concorsi per cattedratici e ho riaperto quelli per ricercatori. C’era però il problema di evitare accordi preventivi sui posti da assegnare, per garantire la serietà dei concorsi. Il criterio scelto era quello della “Peer review”, rivista tra pari. Per prima cosa stabilivamo un principio: per un posto un solo vincitore, due posti due vincitori. Niente sistema degli “idonei”, vale a dire quella massa che preme e che poi si fa entrare per legge. Il Parlamento ha votato per ripristinare gli idonei su pressione di An ma con vasti consensi trasversali. Il secondo principio prevedeva la creazione di liste nazionali e internazionali di valutatori. Per entrare nelle liste si doveva fare domanda e si veniva accettati sulla base dei curricula. C’è un posto di ricercatore? Fanno in venti la domanda e vanno al concorso i cinque che hanno ricevuto in base al curriculum le valutazioni migliori. A giudicare sono valutatori anonimi estratti a sorte da queste liste. Noi l’avevamo fatto, con la destra sulle barricate. Ma la Corte dei conti l’ha bocciato durante la crisi di governo, e a quel punto non era più possibile fare nulla».
Il ministro Gelmini dice di voler premiare valutazione e merito...
«Come? Il nostro era un sistema basato sulla valutazione e sul merito. Intanto la Gelmini l’ha bloccato, quando bisognava solo avviare le procedure. E ha bloccato anche l’agenzia di valutazione, l’Anvur. un ente terzo rispetto all’università e al governo, perché definita “elefantiaca”, quando aveva solo 7 persone di staff e un po’ di personale preso dal ministero».
Matteo Palutan: «Io lavoro per l’Istituto di Fisica Nucleare che è impegnato in prima linea nel progetto del Cern sull’acceleratore di particelle. L’Italia ha investito negli ultimi 10 anni un miliardo di euro in questo progetto, di cui metà è tornato alle imprese italiane in commesse ad alto contenuto tecnologico. I ricercatori italiani sono in prima linea in questo progetto, basti pensare che il prossimo direttore di ricerca del Cern è del nostro ente. Da noi il 30% dei ricercatori che lavorano in questi progetti così importanti è precario. Un altro 10% è fatto di studenti di dottorato. Dunque c’è un 40% di giovani, se così si può dire a 40 anni, che non potranno essere assunti a tempo indeterminato. Questo mentre tutti gli altri Paesi si stanno attrezzando per raccogliere i frutti (noi come Italia abbiamo costruito il 20% del progetto del Cern) del lavoro svolto in questi anni. Nel nostro caso non è tanto un problema di soldi, ma di sbloccare l’accesso dei giovani alla ricerca. E qui vengo alle domande. Il centrosinistra aveva deciso di puntare sull’università e sulla ricerca. Poi, quando è andato al governo, ha continuato a fare un discorso di contabilità. Certo, è stato fatto un tentativo serio di risolvere il problema di questo eccesso di precari, mettendo in moto il processo delle stabilizzazioni e investendo soldi in più per assunzioni straordinarie, anche se pochi. Poi, di fatto, è però iniziato un calvario che è durato mesi in cui ogni giorno ci si domandava se Mussi avesse firmato o meno i regolamenti... Insomma è stato un processo lento. Poi, chiaramente lo scenario oggi è cambiato: adesso ci dicono che i ricercatori non servono a nulla. Nel mio laboratorio su 20 ricercatori precari, 4 sono andati all’estero trovando posto. Non abbiamo problemi a competere con il mondo, a scrivere su riviste internazionali: ci scriviamo una volta al mese. Ma non vediamo il motivo per dovercene andare».
Mussi: «I nostri 20 mesi al governo sono stati molto faticosi. Le cose fatte sono state inferiori alle attese dei nostri elettori. Oggi però ci aspetta l’apocalisse per la ricerca: il mondo dell’università l’ha capito, non sono sicuro che i cittadini italiani ne siano consapevoli. Per capirlo bisogna guardare il decreto Brunetta, la 133 e gli annunci del ministro Gelmini. Il decreto Brunetta abroga la legge del 2001 che aveva esteso alla pubblica amministrazione la possibilità di contratti di lavoro flessibile. Nell’Università c’era stato un boom di questi contratti: ora la norma prevede che, alla scadenza, questi contratti non siano più rinnovabili. Anche per quelli che non hanno scadenza e sono legati a progetti di ricerca: scadono a giugno 2009. Su 70mila ricercatori circa la metà hanno contratti flessibili. Quelli che scadranno non saranno rinnovati. E non ci sarà possibilità di trovare altri accessi, perché gli accessi sono chiusi. Mi spiego: gli enti di ricerca devono ridurre del 10% il loro personale. Il turn-over nelle università è di uno su cinque: ma se escono 5 professori e entra un ricercatore non è uno a 5 ma uno a 10 in termini di costi. Avremo un corpo docente fatto sempre meno da giovani e da ordinari vecchissimi, non sostituiti da nuovi ingressi. Infine, il taglio di 1,4 miliardi di euro alle università da qui al 2013 farà sì che si comincerà a tagliare sui posti di dottorato e di ricercatore e non ci saranno più concorsi. Di più: la Gelmini vuole bloccare i concorsi in atto per 3mila ricercatori. In poco tempo saranno per strada 30mila ricercatori che sono la spina dorsale del sistema della ricerca in Italia. È un delitto inimmaginabile, apocalittico. Questo vuol dire che noi non parteciperemo più alla ricerca del Cern, che non potremo più fare ricerca sui tumori in istituti come il Mario Negri. Chiudono tutto. Ci rimarrà l’”Isola dei famosi” e la “Talpa”. È una cosa che merita un’insurrezione: ammazzano un’intera generazione e quelle dopo che verranno. Io sono qui anche per prendermi in carico le nostre colpe, ma la destra sta preparando l’apocalisse».

Giulia Marinello: «Io temo la trasformazione delle università in fondazioni private: così si distrugge il ruolo pubblico della formazione. Solo la ricerca pubblica può lavorare in tutti i campi. Quella privata rischia di essere settoriale e controllabile».
Ti senti parte della generazione che non avrà un posto?
Giulia Marinello: «Io vorrei fare l’ingegnere in Italia, occuparmi di fonti rinnovabili. Ma c’è una politica miope, che punta solo a chiudere i bilanci e non guarda al futuro: se vorrò lavorare nel mio campo sarò costretta ad andarmene all’estero. Eppure lo Stato per formarmi spende almeno 10mila euro...»
Mussi: «Ti correggo, un ragazzo che ha concluso il dottorato costa dalla scuola elementare in poi 500mila euro. Eppure capita che regaliamo persone ad altri Paesi per risparmiare 50 euro di stipendio di un ricercatore... La ricerca è un investimento altamente produttivo: per ogni dollaro investito se ne producono 3. Ma non può dipendere solo dall’utilità economica, deve spaziare dalla vita degli Assiri a quella delle formiche. Per questo serve una forte ricerca pubblica. Il problema però è un altro: la borghesia italiana non mi pare interessata. Si preferisce investire 50 milioni per un centravanti. Da noi Mecenate è morto e non ci sono Guggenheim e Rockefeller. Perché dunque le Fondazioni? Sono la via alla chiusura di una parte del sistema universitario per fallimento. Il rettore del Politecnico Profumo ha paragonato la cura Gelmini al digiuno per gli anoressici: li affami, li costringi a cercare fondi. Ci saranno poche università che riusciranno a sopravvivere sul mercato. Altre no, Chiuderanno».
C’è il problema della proliferazione degli insegnamenti: tutti parlano di quel famoso corso di berbero con un solo iscritto...
«Sotto il precedente governo Berlusconi le sedi universitarie sono passate da 290 a 360. Non abbiamo troppi atenei, ma troppe sedi: su questo siamo intervenuti con la finanziaria 2007 bloccandone la proliferazione. Sempre sotto il governo Berlusconi i corsi sono passati da 4400 a 5600: è evidente che con il 3 più 2 fossero destinati ad aumentare, ma così è troppo. Io ho fissato per legge il numero massimo di esami: 30 per la triennale, 12 per la specialistica. Abbiamo alzato gli standard per tenere aperto o aprire un corso: prima se aprivano in quantità, soprattutto con professori a contratto che sono arrivati fino a 38mila: docenti con contratti da 500, 1000 euro l’anno. Noi abbiamo stabilito che un corso si può aprire solo se c’è la metà dei docenti strutturati. Un governo deve limitarsi a questo: fissare regole generali per impedire gli abusi. La politica non può decidere sui singoli corsi da chiudere, sarebbe un grave rischio. Grazie al nostro decreto il numero dei corsi si ridurrà del 25-30%».
Michele Prospero: «Io contesto il mito della funzione economicistica dell’università, con tutto il lessico aziendalista che ne è seguito. Il punto di svolta è stato il 3 più 2, con il principio della concorrenza tra gli atenei che arrivano a spendere il 20% dei loro fondi in pubblicità. Credo che per combattere la mediocrità il problema principale sia cambiare il sistema dei concorsi: ci sono cervelli che andrebbero incentivati alla fuga, che devono la carriera solo alla fedeltà ai potenti. Possibile che nei concorsi ci sia sempre un solo candidato per ogni posto? L’outsider che si presenta viene invitato dal barone a ritirarsi, e questa pratica non ha colore politico. Oggi è in voga un altro fenomeno: quello che vede i professori descritti come una casta di privilegiati. Un ricercatore stabilizzato arriva a prendere 1600 euro al mese, come il consigliere di un municipio di Roma, un associato o di prima fascia da 2500 a 3200 euro. Ci sono però alcuni professori che approfittano del loro ruolo per svolgere altri mestieri, consulenze o attività private. Perché queste figure non vengono inquadrate diversamente, con contratti di diritto privato, liberando migliaia di posti per docenti e ricercatori?
Mussi: «Anch’io trovo insopportabile il linguaggio aziendalista, il discorso dei crediti mi fa pensare a una banca. L’applicazione del 3 più 2 è andata fuori strada, ma l’impianto dei tre livelli di laurea (triennale, specialistica e dottorato) oggi è applicato da 47 Paesi. Non sono contrario alla concorrenza, ma bisogna stare attenti a quale tipo di concorrenza: ad esempio non condivido il criterio che premia gli atenei che incrementino di più il numero degli studenti. Questo ha scatenato un effetto devastante come le lauree in convenzione che hanno creato un meccanismo di favori tra gli atenei e alcune categorie professionali. Io iscrivo in blocco i miei associati e tu mi regali dei crediti: se sei poliziotto 120, giornalista 110, dipendente della Regione Sicilia 124, della Uil di Messina 110...».
C’è poi il caso degli atenei che bocciano meno per attirare un maggior numero di iscritti...
«C’è anche questo rischio: si boccia meno e arrivano tutti i Gelmini d’Italia. Anche il ministro ha fatto l’esame da avvocato a Reggio Calabria perché era più semplice. Insomma, la concorrenza ad accaparrarsi iscritti può anche provocare un abbassamento della qualità».
Oltre ad appoggiare le proteste cosa propone oggi il centrosinistra? Tante mail segnalano delusione nei confronti delle politiche del governo Prodi su scuola e università.
Mussi: «Anch’io mi aspettavo di più».
Giulia Marinello: «Noi studenti stiamo manifestando da diverse settimane, ma perché i partiti del centrosinistra si sono mossi solo dopo di noi? Dov’erano finora? L’opposizione l’abbiamo svegliata noi».
Mussi: «Intanto bisogna capire bene che cosa è oggi il centrosinistra, o quel che ne resta: io spero che si ricostruisca. Comunque capita spesso che i partiti arrivino sulle questioni dopo che la società si è già mossa. Per gli studenti questo deve essere considerato un successo: avete costretto la politica a misurarsi con il vostro movimento. Ora il problema è che la politica rafforzi la sua iniziativa per ottenere risultati: ci sono infiniti altri passaggi prima di un eventuale referendum, a partire dalla finanziaria. Purtroppo la formazione è sempre una priorità del centrosinistra prima delle elezioni. Dopo è un‘altra cosa...».
Vede analogie tra questo movimento e quello del ‘68?
«Allora c’era una più forte politicizzazione di partenza: il Vietnam, Franco, i colonnelli, Praga, la Russia e l’America, l’autoritarismo familiare. Oggi c’è più il merito della questione universitaria, della conoscenza. Penso che il movimento assumerà forme politiche, è uno sbocco inevitabile, ma sarà diverso dal ‘68. Potrebbe anche essere potenzialmente più produttivo».
Si può creare attorno al tema della scuola un nuovo blocco sociale in grado di incrinare quello della destra?
Mussi: «Con la crisi finanziaria siamo arrivati a un punto di rottura dello sviluppo: il “turbo-capitalismo” non funziona più. È un sistema che ha spremuto plusvalore dal lavoro riducendolo alla merce più vile e concentrando la ricchezza nelle mani di quella che Robert Reich, ministro di Clinton non un “no global”, chiama la “superclasse”, la infima minoranza che possiede metà della ricchezza globale. Questa idea oggi è in frantumi. Ma adesso da dove si riparte? O dalla guerra, come è avvenuto nel Novecento, o dalla triade lavoro, risorse naturali e conoscenza. In questa triade c’è un’altra idea di società umana. E l’Italia che contributo porta in questa discussione? Se taglia l'istruzione è evidente che strada intende prendere».
Qual è l’opinione di Mussi sulla proposta di abolizione del valore legale del titolo di studio che trova consensi anche tra intellettuali vicini al Pd, come Ichino e Salvati?
«In Europa quasi ovunque c’è il riconoscimento del valore legale del titolo. Poi le imprese, naturalmente, assumono chi vogliono: non ci sono vincoli. L’idea di abolirlo è puramente ideologica, anche da parte dei cosiddetti riformisti».
In Italia i tentativi di mettere mano ai meccanismi di potere dell’università sono sempre falliti. C’è un interesse diffuso, bipartisan, nella difesa della casta dell’università. I baroni sono più potenti dei politici?
«C’è un aspetto castale del potere accademico che non è stato corretto. Nel 1972 ero responsabile dell’università del Pci, parlai al professor Eugenio Garin della questione dei concorsi a scatola chiusa. Lui mi rispose: “Ci mancherebbe altro che una cosa così delicata come un concorso fosse affidata al caso...”. Eppure stiamo parlando di un grande maestro... È chiaro che chi governa l’università esercita un potere, ma bisogna democratizzarne le forme. Ad esempio i rettori non dovrebbero cambiare gli statuti per restare al loro posto per più di due mandati. Non si rendono conto di quanto questo produca un danno nell’opinione pubblica».
Matteo Palutan: «In fondo chi farà le spese di questa crisi è la parte più giovane dell’università...».
Mussi: «Mi fa impazzire quando la destra dice che gli studenti in piazza difendono i baroni: il meccanismo dei tagli, così come è stato pensato, è fatto per escludere i giovani. Attualmente con i fondi per il diritto allo studio si copre solo il 70% degli aventi diritto. Nel 2010, con la 133, se ne taglierà un terzo. E con i tagli a Regioni ed enti locali scenderemo sotto la metà degli aventi diritto. Il potere dei baroni non sarà scalfito».


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