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Scuola, il piano che premia il merito non risolve i vecchi problemi

di GIORGIO ISRAEL

27/05/2012
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Il Messaggero

 


IL proposito del «pacchetto merito» che dovrebbe essere approvato dal Consiglio dei ministri – introdurre il merito nel sistema scolastico – non può che suscitare plauso. Ma chi conosca questa problematica sa che le difficoltà iniziano quando si passa dai principi all’applicazione e che si riassumono così: come e chi valuterà il merito? La questione centrale – valida per tutto il sistema dell’istruzione – è la definizione del ruolo dell’insegnante.
Una definizione che si lega a quella del rapporto tra autonomia delle strutture scolastiche e universitarie e centralismo ministeriale.
Si ripete che alla figura dell’insegnante va restituita dignità, premiando i meritevoli, e che l’efficienza del sistema ha bisogno di autonomia (che esiste per l’università e sulla carta anche per le scuole). Poi le cose vanno quasi sempre all’opposto, sia per l’eredità del passato, sia perché, in Italia, dietro un fragile liberalismo si riaffaccia sempre un invadente dirigismo centralistico, che si esprime nel diluvio di prescrizioni da cui è travolta la scuola e nella tendenza a rosicchiare l’autonomia universitaria mediante procedure di valutazione di un meccanicismo che lascia stupiti persino i colleghi di Paesi di antica tradizione dirigista.
Il proposito del «pacchetto merito» va inquadrato nel contesto. Un aspetto importante è la situazione che si determinerà con l’approvazione (quasi completata) di una legge sull’autonomia scolastica che è una sintesi di aziendalismo e assemblearismo – un prodotto partiticamente trasversale che esprime bene il livello di crisi cui è giunta la politica in Italia.
Le scuole sarebbero trasformate in una sorta di fondazioni gestite da consigli dell’autonomia presieduti da un genitore e in cui gli insegnanti sarebbero in minoranza, essendo prevista oltre alla loro presenza paritetica con i genitori, quella di rappresentanti di «realtà» culturali, sociali, produttive, professionali e degli studenti. Di fatto, l’unica autonomia non preservata sarebbe quella degli insegnanti, cui si lascerebbe la programmazione della didattica però entro le «linee educative e culturali della scuola» da negoziare con le altre componenti, oltre che soggette alle multiformi prescrizioni ministeriali.
Ci si chiede: chi e come, in una simile struttura, sceglierà lo «studente dell’anno» (e perché poi uno soltanto?), titolare della carta «Io-merito» e di una borsa? Se saranno ancora i docenti – come si osa sperare – dovranno comunque «negoziare» le loro scelte con le altre «realtà» ed è meglio non pensare agli esiti.
Si prospetta un piano di valorizzazione del sistema scolastico che premi le scuole eccellenti. Ma come? Si parla di tener conto del numero di studenti che arrivano al diploma senza bocciature. Come recita la nota legge di Goodhart, quando una misura diventa un obbiettivo cessa di essere una buona misura e diventa un incitamento a comportamenti scorretti. In questo caso, basterà promuovere tutti per diventare «eccellenti».
Un’altra questione cruciale è l’uso dei test. Ne dovrebbe essere introdotta una nuova tipologia universitaria: i «test diagnostici» volti a individuare se il corso scelto corrisponde alle capacità. In generale, i test dovrebbero valutare le competenze logiche e di comprensione dei testi. È difficile non preoccuparsi della tendenza a generalizzare il ricorso ai test dopo due anni di discussioni in cui sono state ignorate le critiche di merito ai test proposti dall’Invalsi, e a pretese come quella di valutare mediante quiz la comprensione o l’interpretazione di un testo letterario.
Questa sordità è un sintomo di preoccupante autoreferenzialità e solleva un problema generale. È noto che già gran parte dei test universitari non è formulata dai docenti ma commissionata a esterni o a «ditte» senza che si sappia come vengano scelti e che qualifica abbiano. Per interrompere questo andazzo occorrerà che i «test diagnostici» siano preparati dai docenti con procedure trasparenti, altrimenti saremo all’arbitrio e parlare di valutazione «oggettiva» sarà derisorio. Anche i docenti debbono essere valutati? Certamente. Ma è illogico che non si consideri «oggettivo» l’operato di chi almeno una volta è stato valutato, e «oggettivo» quello di chi forse non lo è mai stato o mai lo sarà, e non si sa neppure chi sia.
La questione della valutazione dei docenti ritorna sempre, ed è innegabile che la riqualificazione della professione passa per un buon sistema di valutazione. Ma è noto che sul tema siamo sempre in alto mare, essenzialmente perché non si vuol prendere atto che l’unico sistema valido è quello delle ispezioni, concepito come un processo interattivo all’interno del sistema capace di attivare il fine autentico della valutazione, ovvero un processo di crescita culturale.
Un’altra riflessione che viene in mente di fronte all’ambizioso progetto governativo è: con quali mezzi? Lo stato di sfacelo del sistema scolastico è ben noto e non è una buona carta da visita la gestione passata e presente della spesa. Piovono su scuole dalle mura pericolanti acqua e Lim (lavagne interattive multimediali), uno strumento – per chi l’ha visto all’opera – didatticamente mediocre e ormai obsoleto. Si parla continuamente di digitalizzazione delle scuole, della loro trasformazione in web communities, ma non si trova un euro per dotarle di biblioteche e di laboratori, come se la storia o la fisica si potessero «apprender-giocando» sui tablet.
Il tema del dualismo autonomia-dirigismo, della funzione dei docenti e della valutazione ci porta a qualche osservazione conclusiva sull’università. Un recente documento della Classe di scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia dei Lincei ha espresso preoccupazione per la tendenza dell’Anvur (Agenzia per la valutazione dell’università e della ricerca) a privilegiare le pubblicazioni in inglese e su riviste (penalizzando le monografie) e a estendere l’uso dei parametri bibliometrici.
Secondo l’Accademia questi sistemi (gestiti da enti privati a scopi di lucro) sviliscono la ricerca in ambito umanistico e ne danneggiano la qualità. In realtà, le critiche crescenti rivolte all’estero a questi metodi provengono da ambienti scientifici che li additano come un «attentato all’integrità scientifica», quindi nulla va concesso al tentativo di elevare una nuova barriera tra le «due culture». Ma preoccupano ancor di più le voci secondo cui l’uso di tali criteri automatici verrebbe ulteriormente esteso. È da augurarsi che nessuno pensi a decretare l’ammissibilità dei commissari e dei candidati all’abilitazione nazionale a professore universitario con il criterio della mediana statistica e a usare la Valutazione della qualità della ricerca (Vqr) in corso per calcolare numericamente tale mediana.
La sottomissione dei concorsi a criteri estrinseci e arbitrari mutilerebbe in modo drastico l’autonomia universitaria, riducendola alla gestione dei concorsi locali, in omaggio a teorie statistiche inconsistenti e con il risultato di conseguire un degrado culturale senza precedenti.
In conclusione, grande è la confusione sotto il cielo dell’istruzione italiana, il che non è affatto una cosa eccellente, contrariamente al parere di Mao Tse Tung.