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I ricercatori italiani nel rapporto Flc CGIL: appassionati, super specializzati, ma destinati al precariato

10/07/2014
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ricercatori precari

Trentacinquenni, più donne che uomini, 1 su 2 costretto ad andare avanti solo grazie agli assegni i ricerca: sono i ricercatori italiani, fotografati da un’indagine promossa dalla Federazione Lavoratori della Conoscenza CGIL dall’emblematico titolo “Ricercarsi”. I risultati del rapporto (parziali, visto che lo studio completo verrà presentato solo ad ottobre), descrivono una categoria di lavoratori con grandi competenze e responsabilità ancora maggiori, ma che per buona parte non riesce a trovare un’occupazione stabile nelle Università e nel panorama della ricerca del nostro Paese.

Il lavoro di ricerca, promosso da Flc CGIL e realizzata cinque ricercatori (Francesca Coin, Orazio Giancola, Emanuele Toscano, Francesco Vitucci), si struttura in un’analisi quantitativa e qualitativa e utilizza i seguenti strumenti:

  • analisi di dati quantitativi sul numero dei precari dell’università forniti direttamente dal MIUR (i dati si riferiscono ai contratti destinati ai ricercatori nel periodo di tempo compreso tra il 2002 e il 2012);
  • analisi dei dati del questionario online www.ricercarsi.it che, al momento ha totalizzato 1861 risposte;
  • analisi di interviste (40 al momento attuale).

Ecco in sintesi alcuni dei dati più interessanti:

Per quel che riguarda i dati anagrafici regna l’equilibrio: c’è una leggera prevalenza di donne ricercatrici (il 57% dei rispondenti al questionario) rispetto ai colleghi uomini; le fasce di età in cui si distribuiscono i nostri ricercatori, poi sono altrettanto omogenei: il 18,9% ha meno di 30 anni il 18,9%, il 20,8% ha tra i 37 e i 40 anni e il 21,5% ha più di 40 anni.

Leggera prevalenza di ricercatroi precari nelle facoltà di stampo scientifico (29,7%), seguite da quelle umanistiche (25%), socio-economiche (24,1%) e sanitarie (21.2%).

Una curiosità, quella rappresentata dal numero di ricercatori che hanno un figlio, solo il 27%; un dato che, considerando l’età media del campione preso in considerazione (35 anni) e quella entro cui, in Italia si genera il primo filio (32) dimostra come il mondo della ricerca non venga percepito dai suoi protagonisti come un ambiente in cui sia possibile/auspicabile tirar su famiglia da giovani.

Ottime le competenze dei nostri ricercatori: il 73% degli intervistati ha portato a termine con successo il percorso di dottorato. Tuttavia, la mobilità dei nostri cervelli è scarsa:  solo il 6,2% ha varcato i confini nazionali per effettuare il dottorato, mentre il 29,2% ha frequentato il corso di dottorato in una Università diversa da quella della laurea.

L’estero rimane pur sempre una forte attrattiva per i nostri ricercatori: 6 studiosi su 10 hanno avuto esperienze di formazioni fuori dal nostro Paese, il 43% dichiara di aver lavorato, oltre che studiato, all’estro e il 18% ha avuto almeno un impiego in un Ateneo oltre confine.

Eppure, le Università italiane offrono contratti di lavoro e condizioni economiche pessime: attualmente circa il 50% dei ricercatori nelle università italiane ha un contratto a termine  -  dagli assegni di ricerca ai ricercatori a tempo determinato passando per i dottorandi.

Dal 2008, poi, c’è stata una vera e propria esplosione degli assegni di ricerca (che consentono agli Atenei di contenere i costi, ma offrono poca tutela ai ricercatori). Fu qyuello, infatti, la’nno in cui venne approvata la Legge 133, che ha contingentato le assunzioni a tempo indeterminato in alcuni settori pubblici, tra cui le Università.

Da allora, i contratti atipici sono quasi raddoppiati nelle università pubbliche e quasi quadruplicati in quelle private, anche se qui si usa di più il contratto a tempo determinato, forse perché è l’unico che consente di insegnare.

E quali sono le mansioni svolte dai nostri studiosi. A rispondere è direttamente uno dei coordinatori dell’indagine, Francesco Vitucci: ”Un ricercatore dovrebbe fare solo ricerca,  invece è il jolly delle università: segue le tesi, anche quelle assegnate a altri, insegna. Addirittura a volte viene utilizzato per lavori extra accademici: dà una mano negli studi dei professori avvocati o medici”.

Una percentuale bassissima, il 3,1%degli intervistati, dichiara di dedicarsi esclusivamente alla ricerca. Peggio ancora, quasi un intervistato su 3 (il 28,6%) dichiara di aver lavorato spesso senza nemmeno essere retribuito, mentre solo il 20% degli intervistati asserisce di non aver mai svolto incarichi senza nemmeno l’ombra di una retribuzione.

La luce in fondo al tunnel, poi, è praticamente un miraggio: stando ai dati parziali forniti da Flc CGIL, solo il 6,7% dei ricercatori impegnati nelle nostre Università è stato assunto con un contratto a tempo indeterminato.

Un percorso difficile, che spesso miete “vittime”: il 16% del campione dichiara di aver abbandonato il percorso accademico, molti (il 45,4%) per andare a svolgere una professione analoga in ambito civile; tuttavia la percentuale di chi, dopo anni di specializzazione e ricerca ad alto livello, si ritrova disoccupato è davvero elevata: il 34% degli intervistati.

E chi lascia non lo fa sempre per mancanza del rinnovo del contratto: il 40%, infatti, risponde di aver rinunciato perché non gli veniva data la possibilità di crescere professionalmente o a causa dell’instabilità professionale.

Ma quanto incide la precarietà nella vita e nel lavoro di un ricercatore? Moltissimo: l’84,3% del campione ritiene che il proprio lavoro di ricerca sia influenzato negativamente dalla precarietà contrattuale. E le prospettive? Non sono rosee, almeno non in Italia:  oltre il 50% non riesce a immaginare il proprio futuro professionale tra 10 anni e il 60% dei dottorandi pensa che dovrà andare all’estero per continuare a lavorare nella ricerca.

Eppure, i ricercatori italiani amano il loro lavoro: nella tag cloud realizzata con le parole che con più frequenza durante le  interviste, i vocabili che risaltano maggiormente sono: “stimolante”, “impegnativo”, “appassionante” e sono il seconda battuta arrivano i vari “precario” e “frustrante”. “Questo dimostra che stiamo buttando nel secchio un patrimonio inestimabile – spiega ancora Vitucci, in un intervista rilasciata a La Repubblica – persone che abbiamo formato, che sono appassionate del loro lavoro, che potrebbero fare crescere la ricerca italiana, ma che non vedono prospettive”.