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Republica-MA L'UNITA' SINDACALE RIPARTA DALLE FABBRICHE

INTERVENTO MA L'UNITA' SINDACALE RIPARTA DALLE FABBRICHE I cittadini la appoggiano, ma per il governo la concertazione è una parolaccia. UMBERTO ROMAGNOLI cARO Direttore, Poche settima...

16/03/2003
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la Repubblica

INTERVENTO
MA L'UNITA' SINDACALE RIPARTA DALLE FABBRICHE

I cittadini la appoggiano, ma per il governo la concertazione è una parolaccia.
UMBERTO ROMAGNOLI

cARO Direttore,
Poche settimane fa nella pagina dei commenti Repubblica titolava: "I sindacati e il miraggio dell'unità". Di rado un titolo è stato più in sintonia col contenuto dell'articolo. Benché scritto da un uomo di scienza e di azione che ha fatto del pragmatismo la sua divisa mentale, l'autore - Gino Giugni - si occupava dell'unità sindacale come di un "sogno" per la cui realizzazione, visto come si sono messe le cose, ci vorrebbe un "miracolo". Un miracolo, concludeva l'autorevole articolista, che "tocca agli uomini di buona volontà" tentare di compiere. Oggi sappiamo, sebbene non sfugga a nessuno come sia più semplice distruggere l'unità sindacale che rifarla, che l'intervento di Giugni non è caduto nel vuoto. Notizie apparse nei giorni scorsi testimoniano che si è aperto uno spiraglio di dialogo tra le Segreterie confederali di Milano e un gruppo di intellettuali (come Aris Accornero e Gianprimo Cella, Sandro Pizzorno e Piero Craveri) ed ex dirigenti sindacali (come Pietro Larizza, Vittorio Foa, Piero Boni) guidato dallo stesso Giugni.
Per questo, è opportuno riprendere il discorso, partendo dal dato empirico che l'unità sindacale non è svanita come i sogni all'alba, ma ha lasciato dietro di sé tracce corpose e riconoscibili. Prima di eclissarsi, infatti, ha partorito dei figli ai quali ha affidato il compito di stabilire e mantenere aperto un canale unificante di comunicazione diretta con la base degli iscritti e dei non iscritti. Un compito a cui la vocazione unitaria iscritta nel codice genetico degli organismi dei quali fanno parte proibisce di sottrarsi, anche se nel frattempo sono rimasti orfani. Sono le decine di migliaia di delegati liberamente eletti dal personale nei luoghi di lavoro per istituire rappresentanze sindacali unitarie (RSU), in attuazione di un accordo concluso tra tutte le centrali sindacali e i loro "partner" sia nel settore privato che nel settore pubblico sulla scia del patto concertativo del luglio '93. Non a caso, sta già circolando la voce che bisognerebbe sopprimerli, aumentando così le probabilità che la rottura dell'unità d'azione sindacale divenga irreversibile. Chi ha sparso la voce sa che l'insieme delle RSU operanti un po' ovunque costituisce il retaggio politico-organizzativo più consistente e significativo della fase più redditizia (anche per il paese) del processo unitario e, perciò, sa che è un capitale sociale nelle mani degli uomini e le donne "di buona volontà" che intendono continuare ad investire sull'unità sindacale.
In realtà, l'eventuale azzeramento di questa risorsa completerebbe un disegno demolitorio di vasto respiro al centro del quale si situa la concertazione come metodo di formazione della volontà politica dei decisori pubblici complementare - lo definì la Corte costituzionale - rispetto ai procedimenti formali regolati dalla costituzione scritta. Un metodo tutt'altro che sgradito all'opinione pubblica, se è vero quel che risulta da una ricerca condotta di recente dall'Eurisko per conto del CNEL, ossia che il 70% degli italiani valuta positivamente che il governo consulti i sindacati prima di prendere decisioni con ricadute sulla vita dei cittadini. L'elevato indice di gradimento non stupisce.
Il fatto è che vent'anni e passa di negoziati trilaterali sono serviti a favorire un intreccio tra azione sindacale e azione statale giudicato virtuoso perché il diritto del lavoro si è adeguato ai tempi senza turbolenza nelle piazze né conflittualità nelle aziende. E' tutto; ma non è poco. Adesso, comunque, il saldo attivo dell'esperienza rischia di svaporare. Nel 2001, è subentrato un governo che, convinto di avere fatto il pieno di legittimazione sociale il giorno in cui ha vinto le elezioni, si ritiene su questo piano del tutto autosufficiente. Nel suo lessico, infatti, la concertazione è una parolaccia. Paradigmatica è la volontà del centro-destra di imporre al diritto del lavoro di "modernizzarsi" al di fuori degli schemi di autodeterminazione che hanno conformato la costituzione materiale per attuare una costituzione formale ricca di promesse di emancipazione sociale. Un'opzione del genere riporta indietro le lancette dell'orologio, perché dimentica che il primo settore dell'ordinamento in cui si è potuto toccare con mano che il diritto non si legittima per il solo fatto di essere posto da determinati organi e con certe procedure è stato proprio quello concernente il tipo di lavoro egemone del '900. Vorrebbe insomma cancellarne il ciclo evolutivo di cui è stato protagonista un sindacato capace di "far alzare gli occhi dei lavoratori al di sopra del banco di lavoro per guardare l'ambiente che li circonda" e, come diceva Luciano Lama, "convincerli a trasformarlo". Questa linea di tendenza non è diventata impraticabile, malgrado tutto. Però, lo diventerà senz'altro se, nell'angolo di cielo che i sindacalisti sono soliti scrutare, l'unità sindacale cesserà di brillare come una specie di stella polare.
(L'autore è ordinario di Diritto del lavoro all'Università di Bologna)


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