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Repubblica-Un consiglio al ministro Tremonti dica la verità sui conti pubblici -di E.Scalfari

La vera catastrofe che incombe sulla finanza italiana proviene dalla Sanità e dall'allegra gestione di quasi tutte le Regioni che ha provocato un debito enorme Il Tesoro si è limitato finora a ras...

16/06/2002
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la Repubblica

La vera catastrofe che incombe sulla finanza italiana proviene dalla Sanità e dall'allegra gestione di quasi tutte le Regioni che ha provocato un debito enorme
Il Tesoro si è limitato finora a rastrellare un po' di liquidità per finanziare il fabbisogno di cassa nell'attesa vana che l'economia mondiale si riprendesse
(SEGUE DALLA PRIMA PAGINA)
EUGENIO SCALFARI

L'indebitamento allo 0,5 in rapporto al Pil, quest'ultimo in crescita tendenziale pari al 2,3 per cento, il fabbisogno di cassa preventivato attorno ai 10-12 miliardi di euro (20 mila miliardi di vecchie lire). Queste cifre-obiettivo sono ormai cadute come birilli e lo stesso Tremonti dovrà ora sostituirle con previsioni più aderenti alla realtà. E fin qui non ci sarebbe nulla di irreparabile salvo registrare una capacità previsionale assai modesta da parte degli uffici del Tesoro preposti a queste delicatissime funzioni.
Il guaio è che non sono le previsioni ad aver indicato gli obiettivi, ma piuttosto gli obiettivi ad aver piegato le previsioni a dimostrare la propria realizzabilità. E poiché l'obiettivo preliminare, anzi il vero e proprio vincolo come ebbi occasione di definirlo, era quello di abbassare in misura sostanziale la pressione fiscale a cominciare da subito, tali essendo gli impegni solennemente contratti con gli elettori dalla coppia Berlusconi-Tremonti, ne venne che il ministro dell'Economia dovesse astenersi da ogni manovra finanziaria e fiscale che fosse in contraddizione con il contratto elettorale.
Ecco perché le cifre della contabilità nazionale sono state mantenute a livelli illusionistici ed ecco perché tutta la strategia di Tremonti ha puntato sulla ripresa dell'economia mondiale e italiana il più possibile rapida e consistente. Nel frattempo, e in attesa che ciò accadesse, si doveva tirare avanti negando pervicacemente la realtà e poggiando tutta l'azione di governo su operazioni "una tantum" di "maquillage" finanziario, sperando con questo metodo di guadagnar tempo in attesa dell'immancabile rilancio della domanda, del reddito, delle entrate fiscali, delle quotazioni di Borsa e delle aspettative del mercato.
Purtroppo per tutti noi - e anche purtroppo per lei egregio ministro del Tesoro - di queste attese non se ne è verificata nemmeno una, anzi nemmeno mezza, come alcuni osservatori non coinvolti nel coro delle compiacenze avevano fin dall'inizio scritto e temuto. La conseguenza è che lei non ha predisposto nessun piano di azione e nessuno strumento di contrasto anticiclico. Lei ha rastrellato come e dove poteva un po' di liquidità per finanziare il fabbisogno di cassa che nei primi cinque mesi dell'esercizio è intanto arrivato a 45 miliardi di euro, pari a circa 90 mila miliardi di vecchie lire, un livello - me lo lasci ricordare - notevolmente superiore a quello che nella primavera del 2001 fece accendere il segnale di allarme rosso al governatore della Banca d'Italia. Ha sperato nell'emersione dal sommerso che avrebbe dato qualche sollievo al fisco e che non si è invece affatto verificata. Ha cercato di distrarre l'attenzione dei "media" con la creazione di fantomatiche società (Patrimonio Spa e Infrastrutture Spa) che dovrebbero incamerare fuori bilancio i beni dello Stato per farli fruttare al meglio vendendo tutto quanto sia possibile vendere e intanto mettendoli a garanzia di prestiti bancari da usare per ridurre la cassa e le spese correnti.
Insomma ne ha pensate e fatte di tutti i colori, salvo le cose che in realtà avrebbe dovuto concretamente avviare.
Ma prima di esaminare il bubbone più preoccupante di tutti, restiamo ancora un poco su un aspetto delicatissimo di questa sua "non politica" o, se vuole definirla più benevolmente, "politica dell'attesa". Pochi giorni fa, lei ha richiamato con encomiabile severità le Regioni a rispettare una regola che sta scritta in Costituzione e nelle leggi ordinarie: non è possibile ed anzi è illegale modificare l'attivo patrimoniale di un ente pubblico per ridurre le spese correnti. L'attivo patrimoniale può essere usato per finanziare investimenti ma non per pagare stipendi o soddisfare consumi.
Ben detto, signor ministro del Tesoro. Purtroppo lei non è credibile quando frusta le Regioni che sono venute meno a questa norma, per la semplice ragione che gran parte della sua politica è stata fin qui concepita con la stessa logica che lei rimprovera alle Regioni e che porterà allo sfascio la finanza pubblica se non verrà al più presto impedita.
La creazione della Patrimonio Spa e della Infrastrutture Spa è esattamente l'uso del patrimonio per fare cassa e per ripianare spese di gestione. Molto opportunamente il presidente della Repubblica, nel promulgare la legge che istituisce quei nuovi e assai discutibili strumenti, non soltanto ha ribadito l'inalienabilità dei beni culturali e storici ma ha ricordato, con apposita e pubblica lettera al presidente del Consiglio, che "la società Infrastrutture Spa può adibire a garanzia dell'emissione di titoli del debito pubblico soltanto beni alienabili affinché la garanzia sia effettiva, il che porta ad escludere tutti i principali beni pubblici dei quali appare necessario preservare l'indisponibilità".
Sembrava una montagna ma sarà soltanto un topolino.
***
Ma la vera catastrofe che incombe sulla finanza pubblica proviene dalla Sanità e dall'allegra anzi allegrissima gestione di quasi tutte le Regioni alle quali compete. Nell'autunno del 2000, il governo Amato definì con le Regioni un patto concernente il tema Sanità, che già allora destava notevoli preoccupazioni tanto da indurre il ministro Visco a modificare in peggio gli obiettivi finanziari innalzando dallo 0,7 all'1,1 il rapporto indebitamento-Pil. Fu questo il famoso buco (0,4 punti di peggioramento) dietro al quale tentò poi di ripararsi l'intero governo Berlusconi che ben altri scostamenti si trova ora a dover gestire.
Il patto del 2000 prevedeva sanatoria dei debiti pregressi, stabilizzazione delle cifre destinate dallo Stato al funzionamento del Servizio sanitario nazionale, obbligo delle Regioni di non superare per nessuna ragione quei livelli di spesa oppure di provvedere a finanziare gli sconfinamenti mobilitando risorse, cespiti e imposte di pertinenza regionale. Decorrenza del patto a partire dal gennaio del 2002. Nell'agosto del 2001 - subentrati Berlusconi ad Amato e Tremonti a Visco - il patto precedente fu annullato e sostituito da un patto nuovo di zecca che ebbe queste caratteristiche:
1. Aumento di oltre il 10 per cento dei finanziamenti che lo Stato si impegnava ad erogare fino al 2004.
2. Spostamento dell'obbligo di stabilità dal gennaio 2002 al gennaio 2003.
3. Sanatoria dei disavanzi che si fossero verificati nel frattempo per cause di forza maggiore.
Il risultato di questo spostamento in avanti degli impegni assunti, più l'effetto dell'abolizione dei ticket e il mancato ancorché promesso monitoraggio ha prodotto un indebitamento "sanitario" dell'ordine di 60 miliardi di euro (120.000 miliardi di vecchie lire) di cui almeno 33 miliardi (66.000 miliardi di vecchie lire) stipulati dalle Regioni e 27 a carico dello Stato.
Adesso e solo adesso si corre ai ripari: ticket, aumento dell'Irpef regionale, alienazione di beni ospedalieri, abbassamento delle prestazioni sanitarie obbligatorie e taglio di alcuni prodotti farmaceutici. Ma è dubbio che bastino senza ulteriori interventi dello Stato ed è ancora più dubbio che producano effetti entro l'esercizio in corso. Se soltanto la metà della cifra o anche solo un terzo di essa si andasse a scaricare sul bilancio dello Stato l'effetto ne sarebbe devastante. Francamente riesce difficile dare qualche consiglio al ministro del Tesoro, che pure ne avrebbe un gran bisogno. Il suo motto sembra quello che stava scritto sui portacenere dei nostri padri: "Grazie, so sbagliare da solo".
Ma uno, uno solo mi arrischio a darglielo: si rivolga ai cittadini e dica la verità; faccia un quadro chiaro della situazione, attribuisca alla cattiva congiuntura mondiale la larga parte che le spetta e assuma a proprio carico alcuni errori purtroppo non marginali. Dica che le promesse fatte a cuor leggero sono rinviate a tempi migliori e che conta sulla solidarietà di tutti per raddrizzare una barca che navigava bene ma che ora fa acqua da molte falle.
Non mi pare, onorevole Tremonti, che lei abbia molte altre possibilità di uscirne decorosamente se non questa. Forse sarebbe apprezzato. Comunque spetta a lei decidere ma una cosa è certa: il gioco delle tre carte a questo punto non funziona più e non ci crede neppure Tognana, il vicepresidente di Confindustria sugli affari del Nordest, che è tutto


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