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Repubblica-se i soldi alle università sono sempre da tagliare

soldi alle università sono sempre da tagliare L'istruzione è considerata da sempre luogo di inefficienza e di spreco. Per questo il governo aveva deciso di ridurre i fondi ALDO SCHIAVONE ...

10/01/2003
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la Repubblica

soldi alle università sono sempre da tagliare

L'istruzione è considerata da sempre luogo di inefficienza e di spreco. Per questo il governo aveva deciso di ridurre i fondi
ALDO SCHIAVONE

ADESSO CHE LA TEMPESTA SEMBRA PLACATA - con il maltolto restituito dal governo alle università correggendo all'ultimo momento la Finanziaria, e la minaccia di dimissioni dei rettori ormai rientrata - sarà forse il caso di riflettere con un po' di calma su quanto è accaduto.
Una prima valutazione si impone. Il tentativo - poi fallito - del ministro dell'Economia di ridurre i fondi da destinare agli atenei rispetto alla già magra dotazione del 2002 non è stato il frutto né di leggerezza né di un incidente tecnico. Si è trattato invece di una scelta ragionata, con alle spalle idee e convincimenti precisi. In breve: che il mondo della scuola e delle università sia un luogo di inguaribili inefficienze, inutilità e sprechi, nel quale, quando occorre, si può impunemente affondare qualunque bisturi, e imporre qualsiasi rinuncia. Da quelle parti lì - insomma - tagliare non farebbe mai male: in qualche modo poi gli interessati si arrangeranno.
Nei giorni della crisi questo modo di pensare - diciamo il retroterra concettuale della decisione del ministro, egli stesso peraltro un docente - è emerso con esemplare chiarezza: e a parlare non sono stati politici della maggioranza, ma fior di professori, persuasi (e credo a ragione) di rappresentare un diffuso senso comune: il Corriere della Sera se ne è fatto un autorevole interprete - in maniera, del resto, assolutamente legittima.
Sono emerse così - portate alla luce dall'emergenza - la sostanza e la giustificazione di un comportamento che ha a lungo caratterizzato la politica pubblica del nostro Paese verso l'istruzione e la formazione superiore (non solo, purtroppo, da parte del centrodestra): rifiuto a investire, quando non diretta volontà di tagliare, come risposta alla convinzione di trovarsi di fronte a una voragine senza nome e senza speranza, a una stratificazione tanto radicata di distorsioni soggettive e strutturali, di disordine e di cattiva gestione, da indurre come unica reazione possibile quella di cercare di limitare i danni, contenendo indiscriminatamente le spese.
Ebbene, è esattamente in questo intreccio di (presunto) realismo e di (colpevole) rassegnazione che si esprime tutta la cultura del declino italiano: un arretramento e un restringimento quotidiano degli orizzonti e degli animi, che è innanzitutto abdicazione a produrre e sviluppare - attraverso istituzioni adeguate - conoscenze, scienza, criticità. Ed è proprio dal contrasto di questa tendenza che occorre partire per cercare un rimedio, se siamo ancora in tempo.
La nostra università ha bisogno di più adeguate risorse pubbliche, di maggiori investimenti privati, di competitività e diversificazione fra gli atenei, di un sistema razionale di formazione post-laurea o di terzo ciclo (le cosiddette "scuole di eccellenza", in collegamento con i dottorati), di un migliore controllo sui risultati, di più trasparenza. Ha bisogno di essere insieme più aperta e più selettiva (di coniugare con attenzione opportunità e merito).
Il punto è che questi non sono obiettivi irrealizzabili. Per la prima volta, la riforma in via di sperimentazione - varata dal precedente governo e non bloccata dall'attuale - sta riuscendo a creare in molti casi le condizioni indispensabili perché possano essere raggiunti. L'autonomia delle sedi e la differenziazione delle lauree (triennale e specialistica) sono una cornice preziosa entro la quale si può lavorare con efficacia. Certo, abbiamo assistito in molti atenei a una moltiplicazione ingiustificabile dei corsi di studio: e però è un errore che si può correggere con relativa facilità. Senza dubbio, il nuovo meccanismo di reclutamento dei docenti (frutto di un pasticcio legislativo che vide a suo tempo corresponsabili governo e opposizione) va rivisto, nel senso di impedire troppo agevoli promozioni "interne": e tuttavia anche questa non è una correzione ardua. L'importante è non perdere di vista (come stava per accadere) che stiamo avendo l'occasione di una svolta, rispetto a un passato disastroso: non rendersene conto, e non approfittarne, sarebbe micidiale e imperdonabile.
Nel momento più acuto di quest'ultima crisi la Conferenza dei rettori è stato un interlocutore valido e autorevole delle forze politiche, dell'opinione pubblica e del governo: sarebbe importante che continuasse a marcare la sua presenza al di là dell'emergenza, con un quadro organico di proposte, sia per orientare l'autogoverno degli atenei, sia per suggerire ipotesi di interventi normativi al ministro dell'università e ai gruppi parlamentari.
Il presidente della Repubblica si è mostrato in questi giorni sensibile al problema della "fuga" delle intelligenze e dei talenti dalle nostre istituzioni di ricerca. Chiede che si faccia di meglio e di più. Ha perfettamente ragione: e si tratta per giunta di un compito squisitamente bipartisan. Pur nei confini che il suo ruolo gli impone, ci auguriamo che egli si faccia auspice e garante della rinascita della nostra Università: perché gli studi e i saperi sono sempre di più l'autentica trincea dove si difende davvero quell'identità italiana, il cui ravvivamento sembra stargli - e giustamente - tanto a cuore.


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