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Repubblica- Quello Stato lontano dalle Regioni

Quello Stato lontano dalle Regioni Il sistema politico dopo i sommovimenti degli anni Novanta si è ricomposto La ripresa centralista è evidente nella Ue sempre più condizionata dai governi...

10/11/2002
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la Repubblica

Quello Stato lontano dalle Regioni

Il sistema politico dopo i sommovimenti degli anni Novanta si è ricomposto
La ripresa centralista è evidente nella Ue sempre più condizionata dai governi nazionali
(SEGUE DALLA PRIMA PAGINA
ILVO DIAMANTI
FRA Stato e Regioni, il conflitto si è riaperto, alimentato da una legge finanziaria, che prevede la riduzione delle risorse alle Regioni; e, anzi, ulteriori aggravi di spesa a carico delle stesse (soprattutto per quel che riguarda la sanità). Un contrasto profondo, che scavalca gli schieramenti. E ripropone la frattura fra centro e periferia, fra enti locali e Stato, che aveva traversato gli anni '90. E pareva riassorbito, dopo l'esito delle elezioni del 2001, che aveva sancito la vittoria della CdL, cui partecipano le componenti che più di altre hanno fatto del federalismo una bandiera. Tanto più che i posti chiave nel governo erano stati attribuiti ai principali interpreti di questa prospettiva: Umberto Bossi alle riforme istituzionali; Tremonti all'economia.
Il fatto è che, come abbiamo sottolineato altre volte, il pendolo dei rapporti fra lo Stato e gli enti locali, fra il centro e la periferia, sta cambiando direzione. Se negli anni '90 si era mosso verso le autonomie locali, ne aveva valorizzato i poteri, le identità, il ruolo, da un paio d'anni sta registrando una tendenza inversa.

E si sposta, nuovamente, verso lo Stato. Il sistema politico, dopo il big-bang degli anni '90, seppure incerto e frammentato, si è ricomposto e centralizzato. Il centrodestra che governa, in particolare, si è raccolto attorno al leader. I poteri istituzionali, senza bisogno di riforme, si sono addensati attorno alla figura del premier, per il quale nel 2001 si è indirettamente votato in modo diretto: visto che nella scheda elettorale il nome del candidato premier era esplicitamente indicato accanto al marchio della coalizione. E oggi il ruolo del presidente del Consiglio in Italia non differisce molto da quello del premier inglese o del cancelliere tedesco. (Anche se il titolare, Berlusconi, continua a evocare un ulteriore accentramento istituzionale, nel segno del presidenzialismo all'americana). D'altra parte, l'attentato alle Torri gemelle, la successiva lotta al terrorismo, hanno accentuato la globalizzazione politica, rafforzando, peraltro, gli Stati nazionali, di cui si sono accentuate le funzioni di difesa, per rispondere alle tensioni esterne, ma anche alla crescente insicurezza dei cittadini. Il ritorno dello Stato, inoltre, appare evidente anche nella Ue; i cui orientamenti, le cui scelte risultano condizionati dagli interessi dei governi nazionali, e quindi dal Consiglio. Mentre l'idea di costruire un'entità sovranazionale autorevole (la federazione europea) provoca resistenze. E la sola immagine dell'Europa delle regioni suscita sospetto e inquietudine.
In Italia, le politiche del governo e, più in generale, il confronto fra parti politiche e sociali, in quest'ultimo anno, peraltro, appaiono scarsamente influenzate dal marchio delle autonomie locali. Il mercato del lavoro, anche se dipende largamente da fattori territoriali, oggi viene affrontato attraverso "patti" e negoziati fra le rappresentanze nazionali degli interessi; e da una contrapposizione, quella dell'art. 18, che attiene al "diritto", più che al governo territoriale del lavoro. L'immigrazione: regolata da una legge che mantiene al centro le direttive e i controllo di un fenomeno i cui flussi, le cui specificità cambiano di area in area. E le politiche delle grandi opere, delle grandi infrastrutture: restituiscono controllo e potere allo Stato, alle istituzioni centrali.

La politica: chi discute più di "indipendenza", "questione settentrionale"? Pochi nostalgici. Tanto che se a qualcuno venisse ancora in mente di scalare il campanile di San Marco ad assediarlo troverebbe le troupe di Costanzo e Vespa, alla caccia di ospiti che facciano audience, invece delle "forze speciali". Oggi, invece, la mobilitazione politica si svolge attorno ai luoghi del potere "centrale". La Rai. La povera Rai. La giustizia. Tanto che i girotondi della protesta avvengono attorno ai palazzi di giustizia e alle sedi Rai (con qualche deviazione attorno al Quirinale). Semmai, grandi manifestazioni si svolgono attorno ai temi globali. Come a Firenze. Le mobilitazioni per la devolution, per il federalismo: le minaccia solo Umberto Bossi. Che, tuttavia, incidentalmente, sta al governo. Ed è significativo, per questo, che l'azione della Lega per emendare la finanziaria non riesca ad andare oltre rivendicazioni "localiste": estendere alle imprese del Nord il credito di imposta; opporsi agli stanziamenti per "Roma capitale" (riconosciuta per legge, fra l'altro, con il voto della stessa Lega).

Sembra passata l'epoca delle autonomie locali che conquistano il centro del potere. E i Governatori, per difendere l'autonomia delle loro Regioni; e i loro spazi di "governo", devono riaprire il conflitto con lo Stato. Costretti a ciò da problemi noti, che, per ragioni tattiche, avevano trascurato per qualche tempo. In particolare, dalla considerazione che, fra le competenze loro attribuite e le risorse di cui dispongono il solco resta profondo. E si è, anzi, allargato. Anni di retorica e ideologia hanno dissociato la discussione sul federalismo istituzionale da quella sul federalismo fiscale. Così, i Governatori debbono affrontare problemi enormi, come la spesa (e il deficit) della sanità, senza aver chiaro come affrontarne e distribuirne i costi: fra nuove imposizioni, taglio delle prestazioni e partecipazione alla fiscalità nazionale. Mentre lo Stato, alle prese con un dissesto delle finanze, che ha cause interne specifiche, ma anche esterne e comuni ad altri Paesi, oggi tratta le Regioni (e i Comuni e le Province) nuovamente come "periferie", a cui lesinare i trasferimenti; su cui scaricare parte dei propri costi. Con il rischio, molto evidente, che il federalismo finisca per apparire ai cittadini un costo senza benefici; oppure un lusso, un tema di cui conviene parlare solo in tempi di opulenza.
Così i Governatori e i sindaci, anche quelli politicamente vicini al governo, si ribellano. E non potrebbero fare altrimenti. Perché c'è in gioco la loro credibilità "personale", la loro "faccia". L'investitura diretta dei cittadini, infatti, ha personalizzato il consenso. Ma rischia di indirizzare su base personale anche il dissenso. Tanto più quando si è giunti oltre la metà del mandato. Perché se nel primo periodo è lecito insistere su una politica di sacrifici, nell'ultimo scorcio di governo, essi devono, a maggior ragione, produrre risultati visibili e, per quanto possibile, gratificanti, sul piano delle infrastrutture, dei servizi. Mentre, al momento della verifica elettorale, rischiano di presentarsi agli elettori esibendo ulteriori tasse e, forse, l'istituzione delle scuole e delle polizie locali.
Da ciò la rivolta dei presidenti di Regione; dei sindaci: temono la "devolution". Non quella dello Stato. Quella delle Regioni e del governo locale.


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