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Repubblica-Quando le parole sono usate come pietre

Quando le parole sono usate come pietre ILVO DIAMANTI Nei giorni passati si è discusso ampiamente attorno ai contenuti delle polemiche sollevate dalla Lega sul tema dell'immigrazione, cont...

29/06/2003
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la Repubblica

Quando le parole sono usate come pietre
ILVO DIAMANTI
Nei giorni passati si è discusso ampiamente attorno ai contenuti delle polemiche sollevate dalla Lega sul tema dell'immigrazione, contro gli alleati (?) di governo e soprattutto contro il ministro Pisanu. Non si è discusso abbastanza della forma. Del linguaggio. Del modo in cui il ministro/segretario Bossi, piuttosto che l'on. Cè (ma nessuno, mai, nella Lega assume orientamenti tanto netti senza il consenso preventivo del leader), in Parlamento e sui media, hanno espresso le loro posizioni. Le cannonate per inibire gli sbarchi dei clandestini. Le vittime delle traversate perigliose verso Lampedusa: "incidenti" normali, quantitativamente meno significativi dell'esodo dei gitanti il fine settimana. Oppure, ancora, il ministro dell'Interno, trattato come un poveraccio. Un incapace. In malafede. E, la Chiesa, insieme al Presidente della Camera, tacciati di complicità "oggettiva" con gli scafisti. Colpevoli di favorire "l'invasione" dal Sud e dall'Est del mondo. Per l'atteggiamento comprensivo, emotivamente simpatetico, verso chi, dalle aree di povertà e di oppressione, punta sull'Italia. Porto della speranza. Oppure, più spesso, prima tappa di un itinerario più lungo, verso l'Europa felix. Su questa scelta stilistica e linguistica, che sottolinea il distacco dagli "altri", nemici e amici, attraverso le parole, prima che attraverso i contenuti, non si è andati oltre la solita indignazione. Quasi fosse scontato, trattandosi della "Lega maleducata". Eppure così scontato non è. Perché la Lega costituisce sicuramente un soggetto specifico. Ma ha sempre contribuito ad anticipare, talora a imporre novità e fratture.

Così, anche in questa insurrezione linguistica possiamo scorgere segni di continuità accanto ad altri di rottura e, ancora, di imprevedibilità, nella strategia leghista. E, in generale, nella politica italiana
La continuità. La Lega ha sempre fatto del linguaggio una risorsa dell'azione politica. Dapprima, in quanto movimento di leghe etnoregionaliste, ha usato i dialetti, le lingue regionali come lingue nazionali, per affermare l'identità specifica, "contro" la nazione italiana illusoria e artificiale. Poi, verso la fine degli anni Ottanta, Umberto Bossi ha imposto il "celodurismo" (così detto per i frequenti riferimenti, nei discorsi politici, alle presunte doti virili dei leghisti): il linguaggio della vita quotidiana, parlato nelle piazze, nei bar trasferito nella vita pubblica, nei luoghi istituzionali. In Parlamento, sui media. Dove, invece, la politica era, allora, espressa attraverso un gergo criptico e obliquo, per iniziati. Il retroscena, con Bossi, diventa la ribalta. Le parole diventano armi di lotta politica. "Proiettili" (che "costano poco", come segnalò, un decennio fa, il leader leghista, in polemica con i magistrati). L'insulto, l'invettiva greve diventano parte del "discorso politico". Così Bossi frantuma lo schermo che separa la politica e il "popolo". Adotta un linguaggio "antipolitico", perché lontano da quello usato dalla politica tradizionale; perché alimenta (e si alimenta di) argomenti contro i politici e i partiti. Costruisce, anche attraverso il linguaggio, un soggetto politico "populista": personalizzato, giocato sull'identificazione diretta degli elettori (il popolo) nel leader. Il linguaggio resta, anche in seguito, una costante della strategia leghista. Basti pensare alla torsione lessicale che subisce il tema dell'autonomia: dal federalismo si passa all'indipendenza per sfondare sulla secessione, fino ad approdare alla "devoluzione". Che fa rima con "dissoluzione" e "rivoluzione", anche se il modello scozzese, richiamato dalla formula, appare più moderato rispetto al quadro riformista disegnato da Bassanini e Maccanico, in Italia. D'altronde, nella realtà, il processo devolutivo promosso da Bossi risulta eversivo a parole e, sin qui, modesto nei fatti. Il che sottolinea un ulteriore aspetto della strategia della Lega, in quanto il linguaggio estremo compensa, bilancia una pratica assai più misurata. Soprattutto da quando la Lega sta al governo.
Questo è il dato nuovo, che sottolinea il contrasto che vive la Lega in questa fase. La violenza verbale, infatti, costituisce un esercizio antagonista. Serve a distanziarsi e a distanziare. A esorcizzare, stigmatizzare. A fare lotta e opposizione. Mentre il linguaggio di governo è normalmente moderato, un metodo di rappresentanza e responsabilità istituzionale, di mediazione. Ma la Lega di governo non si è mai adeguata, fino in fondo a questa regola. Non si è mai sottoposta alle regole della moderazione. Anzi, soprattutto negli ultimi mesi, nelle ultime settimane ha ripreso fino in fondo l'eversione linguistica. L'insulto, la minaccia come parole "normali" della politica.
Il che, probabilmente, svolge due funzioni.
In primo luogo, serve a marcare il proprio territorio rispetto agli alleati. Serve a sottolineare che si tratta di potenziali nemici, con cui si sta insieme solo per interesse. Democristiani, fascisti, nazionalisti, socialisti: valgono quanto i comunisti. Serve, cioè, a fare l'opposizione restando nel governo. Anzi: sottolineando che si è "due passi fuori dal Palazzo", come ha fatto ieri Bossi. Serve, cioè, per comunicare alla base fedele, ristretta e insofferente, che a Roma si è solo in affitto. Che la casa resta in Padania.
In secondo luogo, serve per bilanciare, giustificare la pratica, ben più mediocre, dell'azione del governo cui partecipa. In materia di federalismo, immigrazione, welfare. Si fa opposizione, si dà battaglia al governo. Si mascherano i trattori da carri armati.
Il che suggerisce considerazioni più generali, circa l'uso del linguaggio in politica. In fondo la Lega ha imposto in Italia uno stile che si è diffuso in modo trasversale. Il premier stesso fa del linguaggio impolitico una cifra della sua comunicazione. Tanto che gli incidenti di percorso causati da questa scelta linguistica "informale" sono divenuti consueti, per Berlusconi. Quando si trova fuori dall'Italia, soprattutto. Dalla superiorità dei valori occidentali, all'elogio del lavoro nero sino alla stigmatizzazione degli "scioperanti": l'elenco è lungo, al punto da far dubitare che si tratti di accidenti. Peraltro, il linguaggio adottato nei confronti dei magistrati è crudo ed estremo quanto gli atti in materia di giustizia. E le relazioni con l'opposizione: sottolineate da formule che ne spregiano il ruolo. Ben assecondato e ricambiato, peraltro, dall'opposizione stessa. Ma, appunto, l'opposizione è l'opposizione. E Berlusconi, come Bossi, privilegia un linguaggio da opposizione. Un linguaggio politicamente scorretto. Diretto. Tanto, poi, una precisazione, una smentita, una correzione, appianeranno le situazioni più imbarazzanti, ridurranno le fratture più insidiose.
Così per Bossi. Per la Lega. Le cannonate sulle navi degli immigrati e sull'incrociatore di Pisanu, si interrompono. All'ultimo istante. "Abbiamo detto bum. Non abbiamo sparato davvero".
Il problema, questa volta come e più di altre, è che traspare la convinzione che questa strategia funzioni; perché, ormai, ci siamo abituati. La convinzione che la soglia della tolleranza nei confronti dell'intolleranza (linguistica, almeno) si possa spostare più in là; ogni giorno più del precedente. Che, insieme al limite del "dicibile", si possa trasferire anche quello del "possibile", in materia politica e sociale. Segare le panchine perché non ci dormano gli immigrati, considerare le tragedie dei migranti inghiottiti dal mare al pari di incidenti fuori dalla discoteca. E poi, trattare non solo gli avversari, ma anche gli alleati come nemici. Adepti di categorie spregiate: fascisti, piduisti, comunisti, ladri, pedofili e mangiabambini. Tutto ciò: sottende un'idea della società e della politica fondata sull'aggressione, l'egoismo, la sfiducia reciproca, il rifiuto della responsabilità, della mediazione (non oso dire compromesso). E, comunque, lascia intendere che sia utile, oltre che possibile, spingere in questa direzione. E' vera, questa idea? Siamo davvero così: diffidenti, intolleranti, egoisti, malandrini, gaglioffi, (verbalmente) violenti? Vogliamo diventare tali? Consideriamo, almeno, questi attributi malevoli come virtù utili per affermarsi nel mondo pubblico e nelle relazioni quotidiane? C'è motivo di dubitarne. Ma a forza di "rappresentarci" in questo modo e di echeggiare queste parole finiremo col crederci, trasformando in verità una superstizione; finiremo per pensarci peggiori di come siamo nella realtà. Finiremo per diventare pessimi anche noi. Convinti che le immagini deformi, artefatte e proiettate da altri, siamo veramente noi. Davanti allo specchio.


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