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Repubblica-La Guerra sbagliata di Bush

EZIO MAURO È UNA guerra sbagliata. Mentre pende l'ultimatum e si schierano gli eserciti, è il momento di dire con chiarezza che anche se raggiungerà l'obiettivo di liberare l'Iraq dalla tiranni...

19/03/2003
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la Repubblica

EZIO MAURO
È UNA guerra sbagliata. Mentre pende l'ultimatum e si schierano gli eserciti, è il momento di dire con chiarezza che anche se raggiungerà l'obiettivo di liberare l'Iraq dalla tirannia di Saddam - come io mi auguro fortemente e come tutti dobbiamo sperare, nel momento in cui non si riesce ad arrestare il conflitto - questa guerra resta sbagliata. In democrazia, infatti, per fortuna non contano solo i fini: i mezzi impiegati per raggiungerli sono importanti, e in questo caso il mezzo è la forza dell'unilateralismo americano, dispiegato come giudice e vindice, a nome di tutta la comunità mondiale. Qualcosa che non avevamo ancora conosciuto, nel vecchio secolo. Qualcosa, soprattutto, che attraverso la guerra può cambiare l'ordine mondiale, il diritto internazionale, gli istituti di garanzia e le alleanze fin qui conosciute. Perché due sono le partite che si giocano nel deserto iracheno, ed entrambe ci riguardano.
La prima partita è la sfida contro il terrorismo, aperta l'11 settembre del 2001 con l'assalto alle Torri. Abbiamo detto subito, e lo ripetiamo anche oggi, che quell'attacco all'America era diretto contro le democrazie, e che le democrazie devono difendersi. Questa è la ragione per cui, a mio parere, non si può essere contro la guerra "senza se e senza ma": perché la guerra, strumento terribile, può in qualche caso essere giusta, può semplicemente essere inevitabile, può persino essere preventiva, se serve a scongiurare un pericolo imminente, dunque a difendere le democrazie. Ma la democrazia, ecco il punto che abbiamo sempre sostenuto, può e deve difendersi soltanto restando se stessa. Dunque quel pericolo dev'essere vagliato, certificato e definito come tale dagli organismi internazionali di garanzia sotto il profilo della congruità tra minaccia e reazione, e la reazione guerresca deve essere esaminata dai governi e dai Parlamenti nazionali sotto il profilo dell'opportunità politica.
Sapendo - per essere onesti nel nostro discorso - che l'Europa ha lasciato l'America sola, dopo l'11 settembre, circondandola di compassione, un sentimento che non produce politica, ma mai di condivisione, ponendosi cioè il problema comune della difesa e della reazione delle democrazie all'urto del terrorismo. Attraverso la condivisione di questa minaccia e di questa sfida, l'America poteva essere portata a graduare i suoi obiettivi, a costruire le alleanze, a far pesare insieme la forza e il diritto contro Saddam, a cercare un effettivo disarmo del dittatore, a sfruttare le piene potenzialità dell'Onu: insomma a reagire costruendo politica, fino a dare con la politica cuore, bussola e obiettivi condivisi al dispiegamento della sua forza.
E qui si apre la seconda partita. Proprio lo choc dell'11 settembre, unito al radicalismo di questa amministrazione e al suo fondamentalismo religioso che la rende diversa dalle destre americane fin qui conosciute, ha innescato la tentazione di una nuova dottrina di sovranità, che risponda alla sfida terroristica trasformando gli Usa in arbitri del mondo. E' una spinta di difesa, che porta l'amministrazione ad attaccare per distruggere i pericoli di oggi e di domani. Il metro è americano, come il giudizio, l'esercito, il criterio, il processo di ricostruzione e il governatorato: persino il Dio che presiede a tutto questo è americano, un Dio privato del presidente, capace prima di perdonarlo e poi di redimerlo, per portarlo quindi al comando della superpotenza trasformandolo infine in strumento messianico di lotta del Bene contro il Male, per ristabilire il nuovo ordine biblico e soprattutto americano. Perché è un Dio strumentale, quasi membro dell'amministrazione, sigillo mistico di quella "Strategia nazionale di sicurezza" presentata il 20 settembre di un anno fa, quando Bush si disse convinto che "l'umanità ha nelle sue mani l'occasione di assicurare il trionfo della libertà sui suoi nemici" e aggiunse che "gli Stati Uniti sono fieri della responsabilità che incombe loro di condurre questa importante missione".
Ho già scritto tempo fa che questo passaggio teorico - base e fulcro dell'attacco all'Iraq - non è accettabile per un occidentale. Nessun Paese, nemmeno se è stato colpito al cuore dal terrorismo, neppure se è l'unica superpotenza egemone, può pretendere di incarnare una "missione" a nome della libertà, dell'Occidente e addirittura dell'umanità, saltando i passaggi di salvaguardia del diritto internazionale e attribuendosi funzioni, ruoli e compiti mistici e ultrapolitici, che finora soltanto il leninismo aveva assegnato a se stesso: scegliere i nemici, decidere il casus belli, saltare l'Onu, portare il mondo dalla pace alla guerra, trasformando eucaristicamente se stesso in strumento di redenzione del mondo.

al centro delle due partite, in mezzo alla contraddizione, c'è il concetto di Occidente. Rischia di uscire schiacciato da una guerra unilaterale e da una dottrina che la universalizza. Va detto qui, ora, che l'Occidente non è una delega. E' un sistema condiviso di valori e di regole di democrazia, declinati insieme da Stati Uniti ed Europa. Il deficit di Europa indebolisce il concetto stesso di Occidente, nello stesso modo in cui lo indebolisce l'unilateralismo americano. Un'Europa forte, coesa anche se non unita, cosciente di essere nell'alleanza uno dei due pilastri dell'Occidente, poteva portare in questa crisi il senso del diritto internazionale, il rispetto per i meccanismi internazionali di regolazione dell'arbitrio e di contenimento dei conflitti. L'Europa si è invece divisa due volte: prima tra vecchia e nuova, con i Paesi dell'allargamento, venuti dall'impero sovietico, che appena riconquistata la libertà davanti al bivio tra l'identità civica europea e la partnership militare ed economica americana hanno scelto senza esitazioni quest'ultima. Poi, tra vecchia e vecchia Europa, con Francia e Germania unite nel no alla guerra, Spagna e Italia tentate di seguire la Gran Bretagna nella costruzione di rapporti individuali privilegiati con Washington.Per gli scopi a breve di Bush questa doppia divisione è stata una fortuna, di indubbia utilità e di facile incasso. Ma è una visione miope. I singoli Stati che da soli aderiscono alla chiamata americana di schieramento non fanno Europa, non portano con sé l'Europa. E prima di George W. Bush, e dopo di lui, l'America sa perfettamente che tutta la sua storia migliore passa attraverso un'alleanza con l'Europa, dentro il concetto di Occidente. Che non è morto con la caduta del muro di Berlino, e andrà salvaguardato - anche da Bush - durante e dopo questa guerra, perché fa parte della nostra identità, insieme con l'Europa. Due identità in crisi.
Silvio Berlusconi, magari inconsapevolmente, è un piccolo fattore di questa doppia crisi. Schierato preventivamente, pregiudizialmente e unilateralmente con Bush - più che con gli Usa - il nostro presidente del Consiglio ha poi navigato ambiguamente al coperto di fronte al senso comune del suo Paese contrario alla guerra, alla leadership incombente del Papa, alle inquietudini dei suoi alleati, ai problemi costituzionali e ai richiami del Capo dello Stato. Per giorni e giorni è stato fuori da tutti i tavoli, quello dell'Onu, quello dell'Europa pacifista di Chirac e Schroeder, quello premilitare di Bush, Blair e Aznar alle Azzorre.

La lettera di ingaggio di Bush, lunedì, ha messo in chiaro gli impegni assunti dal Capo del nostro governo con l'amministrazione americana, prima che il Parlamento italiano potesse conoscere il suo pensiero davanti all'ultimo atto della crisi. Ieri, in più, Colin Powell ha sbrigativamente inserito l'Italia di Berlusconi nell'elenco dei Paesi che sostengono la guerra americana: di nuovo, il Parlamento non ne sapeva nulla, perché solo oggi il governo riferirà alle Camere.
Berlusconi è di fronte ad un bivio scomodo. Per mantenere gli ingaggi assunti in segreto, oggi deve definire in pubblico giusta e sacrosanta la guerra che Bush muove a Saddam fuori dall'Onu, ripiegando sulla vecchia risoluzione e forzandola fino alle armi dopo aver preso atto che era impossibile comprare i voti sufficienti a convincere Francia, Russia e Cina e non opporre il veto. L'Onu, almeno, è servito a dimostrare che su questa guerra non c'è consenso. E' a questa guerra senza consenso, senza Onu, senza politica - unico fondamento di moralità - che Berlusconi deve decidere se dare il suo sigillo di legittimità. Se lo farà, lo farà contro il sentimento degli italiani e contro il loro giudizio politico, nella speranza di costruirsi nella scia della forza di Bush quello standard internazionale che non è stato capace di costruirsi con la politica. Dimenticandosi - o semplicemente ignorando - che l'interesse nazionale italiano passa attraverso l'Europa e con l'Europa attraverso il rapporto con gli Usa, nella realizzazione concreta del concetto di Occidente. Sono i pilastri della politica degasperiana, che Berlusconi non conosce, ma che qualcuno dovrebbe ricordargli. Bisogna evitare che la guerra unilaterale distrugga tutto, l'Onu, l'Europa politica e persino la tradizione migliore della nostra politica estera. La lealtà e l'amicizia con gli Usa si salvano così, investendo nell'Europa e nell'Occidente, dunque nel futuro: non dicendo oggi, da sudditi velleitari, un sì ad una guerra sbagliata.


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