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Repubblica-La guerra a Saddam e l'imperium americano

La guerra a Saddam e l'imperium americano L'ipotesi dell'attacco all'Iraq va al di là d'un conflitto locale e anche oltre la lotta a Bin Laden Il resto del mondo deve rifiutarsi di sacralizzare g...

29/09/2002
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la Repubblica

La guerra a Saddam e l'imperium americano

L'ipotesi dell'attacco all'Iraq va al di là d'un conflitto locale e anche oltre la lotta a Bin Laden Il resto del mondo deve rifiutarsi di sacralizzare gli Stati Uniti
La teoria del "first strike" sarebbe un'innovazione del diritto internazionale a patto che la proposta Usa fosse fatta propria dalle Nazioni Unite
Dal pacifismo ideologico all'aggressione preventiva passando per la mediazione Onu Sono tre le posizioni in campo, unite solo dalla condanna del terrorismo
(SEGUE DALLA PRIMA PAGINA)
EUGENIO SCALFARI

Effetto della globalizzazione? Maggiore consapevolezza della pubblica opinione mondiale? Prove generali dell'Impero unico dell'unica superpotenza? Interessi connessi al dominio del petrolio, cioè della maggiore fonte d'energia che alimenta il mondo?
* * *
Personalmente - tanto per dirlo subito - non sono un pacifista ideologico anche se ho grande rispetto per chi lo è; non credo nella pace perpetua e nella cosiddetta fine della storia. Ma tantomeno credo nella guerra giusta da combattere in nome della pace. Non credo in nessuna di queste utopie, perciò cerco di veder chiaro nelle situazioni specifiche. Questo atteggiamento mentale non mi mette certo al riparo da possibili errori di valutazione, ma mi pareva comunque doveroso premetterlo come una sorta di carta di identità da fornire ai lettori.
Se vogliamo innanzitutto compiere un inventario delle posizioni in campo diciamo, semplificando, che ve ne sono tre. Tutte e tre convergono sulla condanna del terrorismo ed anche sul giudizio negativo su Saddam Hussein, dittatore senza scrupoli, massacratore delle minoranze che gli si oppongono, politicamente inaffidabile. Al di là di questi punti in comune, divergono su tutto il resto.
La prima posizione è quella del pacifismo ideologico. Le forze che la sostengono sono la Chiesa cattolica, i movimenti "no-global" o "new-global". Si tratta di forze che operano principalmente se non esclusivamente all'interno di quella che siamo soliti definire la civiltà occidentale.
La seconda posizione è quella della guerra preventiva per eliminare il pericolo Saddam prima che sia troppo tardi. E' sostenuta dal presidente Bush, dalla maggioranza dell'opinione pubblica americana (ma non dai più importanti giornali di quel Paese), dal governo di Tony Blair, dal governo spagnolo di Aznar e - con qualche riserva più formale che sostanziale - dal governo Berlusconi. Infine dal governo israeliano di Sharon.
La terza posizione si è per ora arroccata dietro lo scudo dell'Onu e dietro i possibili risultati delle ispezioni che l'Onu ha deciso di imporre all'Iraq e che Saddam ha detto di accettare sul suo territorio senza condizioni ma anche senza ultimatum. Fino a quando in un tempo ragionevolmente breve le ispezioni non saranno state effettuate e non se ne conoscerà il risultato i sostenitori di questa terza posizione si oppongono alla tesi della guerra preventiva. A sostegno di questa posizione c'è gran parte del partito democratico americano e in particolare Clinton, Gore, Teddy Kennedy; i socialisti spagnoli e in particolare Felipe Gonzalez; il centrosinistra italiano in tutte le sue componenti; il governo Schroeder-Fischer che va oltre e rifiuta la propria partecipazione al conflitto anche nell'ipotesi che sia autorizzato dall'Onu (questa è anche la posizione di alcuni settori della sinistra italiana); Chirac e il governo francese; Putin; la Cina; i Paesi Arabi che hanno aderito alla coalizione antiterrorismo formatasi dopo l'attentato dell'11 settembre e in particolare l'Egitto e l'Arabia Saudita.
Questi sono gli schieramenti. Per quanto al momento se ne sa Stati Uniti e Gran Bretagna stanno per presentare al Consiglio di sicurezza dell'Onu il testo di una risoluzione che darebbe sette giorni di tempo a Saddam Hussein per accettare ispezioni che abbiano come obiettivo l'accertamento dell'esistenza in Iraq di armi di distruzione di massa, il disarmo delle forze armate di quel paese e la fine del regime dittatoriale. Nella stessa risoluzione è prevista l'autorizzazione dell'Onu all'intervento militare qualora il governo iracheno rifiuti queste condizioni. Chirac e Putin hanno già reso noto che voterebbero contro una risoluzione di questo genere e se necessario farebbero uso del loro diritto di veto nel Consiglio di sicurezza.
Dal canto suo l'amministrazione Bush si dice pronta a marciare contro Saddam anche al di fuori della cornice Onu. Il Congresso Usa è restio a seguire fino in fondo la linea di Bush e gli porrà comunque alcune limitazioni. La Gran Bretagna è viceversa schierata al suo fianco fin dalle prime battute.

* * *
Il tema della sicurezza contro le armi di distruzione di massa (batteriologiche e nucleari) che Saddam già avrebbe o che sarebbero in fase di avanzata preparazione, è appunto quello che gli ispettori dell'Onu dovrebbero accertare. Il rischio (reale) consiste nell'inaffidabilità di Saddam che potrebbe guadagnare tempo e poi cacciare gli ispettori come già fece cinque anni fa. Si potrebbe osservare in proposito che altri Paesi (alcuni a reggimento democratico, altri no) come Israele, India e Pakistan, sono già in possesso di missili con testate nucleari senza che né l'Onu né gli Usa ne abbiano tratto soverchia preoccupazione. Ma occorre onestamente aggiungere che l'Iraq occupa una posizione strategica di ben diversa importanza, essendo al centro dei giacimenti petroliferi mediorientali dove si concentra circa il 50 per cento delle risorse di greggio.
La questione irachena è dunque strettamente connessa al controllo della produzione del petrolio e del potere politico ed economico che quel controllo conferisce. Qui entrano direttamente in gioco gli interessi dell'Arabia Saudita. La monarchia saudita controlla il 25 per cento della produzione mondiale di greggio. Qualora al posto di Saddam Hussein venisse insediato un governo sostenuto dagli Usa, la posizione dominante dei sauditi sul mercato risulterebbe fortemente indebolita. La Corte di Riad si troverebbe più debole economicamente e alle prese con una propria opinione pubblica con forti venature fondamentaliste e antiamericane. La questione sarebbe ulteriormente complicata da una latente lotta dinastica tra l'attuale reggente, principe Abdullah e suo fratello Sultan, attualmente ministro della Difesa e molto più conservatore religiosamente e politicamente di quanto non sia Abdullah .
Il governo americano e l'establishment petrolifero Usa seguono da tempo queste evoluzioni con particolare attenzione. In un seminario tenuto nello scorso luglio al Defense Policy Board del Pentagono, Laurent Murawiek della Rand Corporation ha messo bene in chiaro l'interesse americano su quello scacchiere. Ha detto: "Eliminando Saddam avremo a Bagdad un governo amico, svilupperemo le sue grandi risorse petrolifere e ridurremo la nostra dipendenza dai sauditi". La "realpolitik" ha le sue leggi da che mondo è mondo e non c'è da scandalizzarsi per questo, ma è opportuno prendere coscienza di queste realtà, sottese ai discorsi sulla sicurezza e sulla democrazia.
Scontato il disagio saudita, problemi non minori si profilano con tutti i Paesi confinanti con l'Iraq: il problema curdo preoccupa grandemente la Turchia e anche l'Iran; il problema sciita preoccupa l'Iran. Si tratta di minoranze oppresse da Saddam, che hanno propaggini importanti nei paesi confinanti e che la scomparsa del "rais" metterebbe sicuramente in movimento.
E' probabile che una vittoria militare rapida degli Usa avrebbe alla fine l'effetto di mettere a tacere queste latenti dissidenze arabe e musulmane, ma certo non sarebbe domato il terrorismo che anzi trarrebbe nuovo alimento dalla presenza in forze degli americani nello scacchiere mediorientale. Senza dire della purulenza della crisi palestinese, che sarebbe ulteriormente aggravata dalla guerra e dal suo esito.
E tuttavia questi possibili scenari non bastano da soli a spiegare il coinvolgimento politico e anche emotivo dell'opinione pubblica internazionale e soprattutto europea se non ci fosse il secondo tema in discussione: quello dell'"imperium" mondiale che a questo punto gli Stati Uniti rivendicano in modo esplicito.
* * *
La teoria del "first strike", l'attacco preventivo contro un Paese "canaglia", sulla quale Bush ha basato tutta la sua strategia anti-Saddam, è già di per sé una rivendicazione di "imperium" mondiale, ma potrebbe comunque essere accettata se la diplomazia americana si fosse limitata a proporla al Consiglio di sicurezza dell'Onu e se questo l'avesse fatta propria. In tale quadro la teoria del "first strike" diventerebbe un'innovazione del diritto internazionale compiuta dalle Nazioni Unite, certamente gravida di conseguenze ma non lesiva del ruolo sovranazionale dell'Onu. Sarebbe cioè l'Onu il soggetto dell'"imperium" e del ruolo di "gendarme" mondiale.
Si porrebbero a quel punto complessi problemi di riorganizzazione democratica all'interno della stessa Onu, del voto ponderato dei Paesi partecipanti, della composizione del Consiglio di sicurezza, del potere di veto dei cinque membri permanenti, delle forze militari a disposizione delle Nazioni Unite. Questioni oltremodo complicate ma comunque iscritte in una cornice pluralistica e multilaterale.
Il caso è diventato tuttavia completamente diverso nel momento in cui il governo Usa ha completato con una postilla la sua teoria del "first strike": se l'Onu non la farà propria, ha detto Bush, gli Stati Uniti andranno avanti da soli con i loro alleati e l'Onu avrà soltanto dimostrato la propria impotenza. Questa postilla ha gettato apertamente sul tavolo la questione dell'"imperium" americano senza più infingimenti e ipocrisie diplomatiche. Ed è questo il punto che spiega le reazioni della Francia, della Russia, della Cina.
Qui però si pone con altrettanta immediatezza il problema di Blair di fronte all'Europa. La "relazione speciale" tra Gran Bretagna e Stati Uniti, comprensibile e forse perfino utile come cerniera politica tra la Comunità europea e gli Usa, diventa incompatibile nel momento in cui viene posta la rivendicazione dell'"imperium"; a quel punto infatti il piede in due staffe di Blair diventa manifestamente impossibile e altrettanto impossibile diventa l'ipotesi che sia proprio lui a ricoprire per primo il ruolo di presidente pluriennale dell'Unione europea che la Convenzione sta formulando nei suoi lavori preparatori della nuova Costituzione.
L'ipotesi della guerra irachena, come si vede, va infinitamente al di là d'un conflitto locale e anche molto al di là della prosecuzione della guerra contro i terroristi di Osama Bin Laden che abbatterono un anno fa le Torri di Manhattan. Si può non essere pacifisti ideologici e neppure antiamericani ma rifiutarsi di sacralizzare l'impero americano è la condizione satellitare di tutti gli altri popoli del mondo.


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